Può il mistero centrale del Cristianesimo, la Trinità, essere letto in modo innovativo, con categorie “orientali”, che divergono da quelle dogmatiche classiche, senza per questo necessariamente contraddire o smentire queste ultime? Il filosofo e teologo Raimon Panikkar (1918-2010) pensa di sì. Le pagine centrali di uno dei suoi libri più noti, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, sono per l’appunto dedicate a un’originale rilettura in chiave buddhista e induista del mistero trinitario.
Per Panikkar «la Trinità non è solamente la pietra miliare del cristianesimo da un punto di vista teorico, ma anche la base esistenziale, pratica e corretta della vita cristiana». Ma è altrettanto vero che «l’interpretazione classica della Trinità non è l’unica possibile», e questo perché il mistero trinitario è presente non solo nel Cristianesimo, ma anche in altre religioni. La Trinità, tiene a chiarire Panikkar, «non [è] un monopolio cristiano», ma piuttosto «una specie di “invariante” [= una “costante”, un “archetipo”] culturale e pertanto umano. […] Nella Trinità», continua il filosofo e teologo spagnolo, «si realizza un vero incontro delle religioni, che equivale non a una fusione vaga o a una mutua diluizione, ma a un’autentica promozione di tutti gli elementi religiosi e anche culturali contenuti in ciascuna di esse».
Com’è possibile concepire un Dio che è contemporaneamente uno e trino? L’«inadeguatezza» della logica di cui noi occidentali usualmente ci serviamo quando ragioniamo, ammette Panikkar, mai si rende evidente come in questo caso. La teologia “classica” ha cercato di risolvere questo problema distinguendo i concetti di “natura” e “persona”: in Dio non esistono tre “nature” o tre “sostanze”, cioè tre “dèi”; una sola è la “natura” divina (uno solo è Dio), ma l’unica sostanza divina è comune a più persone (“una sostanza in tre persone”, dice il dogma). Una soluzione senz’altro interessante, ma che ha fatto e tutt’ora fa molto discutere. D’altronde già Dante, nella Divina Commedia, scriveva che «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purgatorio, canto III, vv. 34-36).
Paradossalmente, un aiuto per comprendere il mistero trinitario può giungere proprio dalle religioni orientali. «Forse le profonde intuizioni dell’induismo e del buddhismo, che procedono da un universo di discorso differente da quello greco, ci possono aiutare a penetrare più profondamente il mistero trinitario», scrive Panikkar, che tuttavia incomincia le proprie riflessioni proprio partendo da ciò che la «tradizione patristica greca» e «la scolastica latina di San Bonaventura» dicono sulla Trinità, e cioè che «tutto ciò che il Padre è lo trasmette al Figlio». Il Padre è «donazione assoluta», che «non lascia niente dentro di sé».
Ma se il Padre «ha dato tutto, per così dire, nel generare il Figlio», e si è dunque “spogliato” di tutto ciò che lo costituiva per darlo in dono al Figlio fino ad annichilire se stesso, come non vedere in questo “svuotamento” (κένωσις, kénōsis), in questo “auto-annientamento”, in questa «immolazione integrale» di Dio Padre qualcosa di simile all’«esperienza buddhista del nirvāna» e del «sūnyatā (vacuità)»?
Osserviamo ora meglio la seconda persona della Trinità. Per Panikkar è senz’altro vero che Gesù è il Figlio, il Cristo, l’“Unto del Signore”, il Mediatore fra Cielo e Terra. Ma se vale questa prima equazione, non vale però la seconda: Cristo infatti, per Panikkar, non è (solo) Gesù, e questo perché Cristo è anche Gesù, ma non si esaurisce in Gesù. Secondo Panikkar, «i cristiani non hanno nessun diritto di monopolizzare» la figura di Cristo, dato che essa è presente anche «in altre tradizioni religiose», sebbene «con diversi nomi e titoli», come Iśvara nell’induismo e Tathāgata nel buddhismo. Fenomenologicamente, anche Iśvara e Tathāgata presentano infatti, proprio come Cristo (e Gesù) «le caratteristiche fondamentali di mediatore fra divino e cosmico, fra eterno e temporale, ecc.».
Resta da analizzare la figura dello “Spirito Santo”. Per Panikkar «il Padre può “continuare” a generare il Figlio, poiché egli “riceve indietro” la Divinità che gli ha dato». Proprio questo “dare e ricevere indietro” è lo Spirito Santo, che spira dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre. Spiega Panikkar: «proprio come il Padre non trattiene niente nella comunicazione che di sé fa al Figlio, così il Figlio non trattiene niente per sé di ciò che il Padre gli ha dato. Non vi è nulla che egli non restituisca al Padre». Ebbene, secondo Panikkar, «non vi è dubbio che il pensiero hindū sia particolarmente preparato a contribuire all’elaborazione di una più profonda “teosofia” dello Spirito». Infatti, «che cosa è lo Spirito se non l’ātman delle Upaniṣad, che è detto identico a Brahman […]? “In principio era il Logos”, afferma il Nuovo Testamento. “Alla fine sarà l’ātman”, aggiunge la saggezza di questo testamento cosmico, il cui canone non è ancora stato chiuso».
Panikkar offre ulteriori spunti di riflessione quando afferma che se il Cristianesimo può essere illuminato dal Buddhismo e dall’Induismo, è d’altronde vero anche il contrario. La sentenza che afferma che “alla fine di tutto vi è l’ātman”, ad esempio, dopo che sia stata posta l’equivalenza tra l’ātman delle Upaniṣad e lo Spirito Santo di cui parlano i Vangeli, può essere letta così: «lo Spirito viene dopo la Croce, dopo la Morte. Opera in noi la resurrezione e ci fa passare all’altra riva» – alla riva in cui risiede quel porto accogliente costituito dal “Noi” trinitario, una comunione d’amore che «abbraccia anche la totalità dell’universo in modo peculiare».
In definitiva, possiamo dire che in queste importanti pagine di Visione trinitaria e cosmoteandrica – a cui peraltro abbiamo dato solo una rapidissima occhiata – Panikkar offra un esempio altissimo della “mutua fecondazione” che secondo lui è possibile instaurare tra le varie tradizioni religiose. Il tentativo da lui compiuto è senz’altro un’operazione intelligente: al posto di contrapporre le diverse religioni, sottolineandone le incompatibilità, le mette in dialogo, aprendo sentieri che a prima vista potevano sembrare impercorribili.
Si può credere o meno al contenuto rivelato dalle religioni a cui Panikkar si rivolge, ma bisogna senz’altro riconoscere a questo filosofo e teologo di essere stato un maestro del dialogo interculturale e interreligioso. Il nostro tempo, che molto spesso tende a demonizzare il “diverso” e a innalzare muri e barriere per evitare di accogliere l’alterità o confrontarsi con essa, ha senz’altro bisogno di pensatori che sappiano mostrare che le differenze non devono necessariamente essere fonti di conflitto: il loro incontro può infatti dare luogo al reciproco arricchimento e a una grande armonia. In fin dei conti, solo note musicali diverse possono dare luogo, unendosi insieme, a una meravigliosa sinfonia.
Gianluca Venturini
Sono nato a Treviso nel “lontano” 1989. Durante gli ultimi anni di Liceo ho scoperto la filosofia. Fu in qualche modo amore a prima vista, ma non potevo certo immaginare che di lì a poco sarebbe diventata una delle grandi “luci” della mia vita. Stregato dalla profondità inaudita dei pensieri che scaturivano da tale disciplina e conquistato dalla grande libertà intellettuale che essa rendeva possibile, decisi di seguirne le tracce iscrivendomi all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove mi sono laureato prima in Filosofia nel 2011 e poi in Storia nel 2013. Attualmente sto completando gli studi che mi porteranno a conseguire la laurea magistrale in “Filosofia della società, dell’arte e della comunicazione”.
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