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È la morte che dà senso alla vita?

Dinanzi al mistero della morte molti uomini si chiedono quale sia il senso della propria vita. Che significato viene dunque ad assumere la vita al cospetto della morte che tutto annulla? Nel corso della storia del pensiero filosofico le risposte sono state molteplici e fra loro molto differenti, per contenuti e prospettive. Al contempo, le religioni, orientali e occidentali, nascono proprio come tentativi di rispondere al limite per eccellenza inscrivendolo all’interno di una prospettiva che sveli la vita, un certo tipo di esistenza che non ci è data di conoscere ma solo di immaginare ed eventualmente “tener ferma” come contenuto di una fede, dopo la morte.

Fra i tentavi filosofici di risposta al significato della vita in rapporto alla morte, più importanti del Novecento, come non annoverare quello dello psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl. Il suo contributo, oltre a riprendere e rimandare alle speculazioni dell’analitica esistenziale dello Heidegger di Essere e tempo, del concetto di uomo come essere-gettato nel mondo e come essere-per-la-morte, si arricchisce della sua esperienza di medico-psichiatra, delle sue competenze filosofiche, psicologiche e soprattutto della sua tragica ma determinante esperienza di vita nei lager nazisti. Invero, la vita dell’uomo Frankl ha certamente contribuito a corroborare le intuizioni e le competenze del Frankl filosofo e psichiatra.

In particolare, rispetto al significato della vita in relazione alla morte, l’intellettuale viennese ritiene che per rispondervi siamo rimandati a noi stessi, al fatto originario che l’esistenza è al contempo consapevolezza e responsabilità. La consapevolezza concerne la propria fragile condizione di esseri che hanno un termine. Mentre la responsabilità inerisce la nostra unicità e irripetibilità di singoli uomini, in rapporto alla singolarità e irripetibilità delle concrete situazioni nelle quali veniamo a trovarci di ora in ora. Singolarità e irripetibilità sono due aspetti che permettono di comprendere il significato della vita che si manifesta come finita. Il carattere limitato dell’esistenza, asserisce Frankl «contribuisce a darle un significato, e non a sottrarglielo»1. Secondo il pensatore viennese la morte non può dunque pregiudicare il senso della vita. Diversamente, proprio l’avere in vista la morte o poterla in qualche modo “anticipare” con l’immaginazione – servendoci di un’espressione heideggeriana – permette di inondare di senso la propria esistenza vivendola autenticamente. Scrive Frankl: «Domandiamoci che cosa accadrebbe se la nostra avventura terrena non fosse determinata nel tempo, ma fosse infinita. Se fossimo immortali in questo mondo, avremmo ogni buona ragione per rimandare ogni nostro atto»2. In questo senso verrebbe meno la nostra stessa responsabilità per la vita. Di fronte a un’esistenza infinita ogni nostro progetto verrebbe meno. Mentre, come aveva intuito Heidegger: «l’esserci, in quanto gettato, è gettato nel modo di essere del progettare»3. È proprio il progettare, l’avere in vista il futuro che permette di realizzare ciò che siamo. La consapevolezza della limitatezza del nostro transito terrestre, permette di intraprendere una strada autenticamente nostra, dunque di rispondere responsabilmente alla vita. «È proprio in considerazione della morte» afferma Frankl «quale limite insuperabile alle nostre possibilità e al nostro futuro, che siamo costretti ad utilizzare il tempo della nostra vita, a non perdere le occasioni che ci vengono offerte, la cui somma ‘finita’ costituisce il consuntivo della nostra vita»4. Il senso della vita riposa proprio nel suo carattere irreversibile. Pertanto, la responsabilità di un uomo si può esaminare solo in relazione al tempo limitato della sua esistenza. In merito a questo Frankl paragona l’uomo ad uno scultore, che partendo dal materiale grezzo (la vita e il suo destino), si adopera con tutti i mezzi e le possibilità a disposizione per dar luce alla miglior forma possibile. Questo è concepibile allorché, pur essendo l’uomo “gettato” nel mondo e dunque condizionato, mantiene la libertà ultima di ergersi al di sopra di tale gettatezza, di tali limitazioni, al fine di realizzare valori che diano senso alla vita. Quest’ultima è conseguentemente un costante cammino di autotrascendenza che permette di attuare la libertà nella forma delle possibilità sempre presenti, al di qua della morte. All’uomo resta dunque la libera possibilità di «trasmutare il materiale che il destino gli fornisce, in parte con il proprio lavoro, in parte sperimentando o soffrendo: di ‘sbozzarne fuori’ quanto più può valori creativi, di esperienza e di atteggiamento»5.

Lo scultore ha a disposizione un tempo limitato per realizzare il suo lavoro e di questo tempo non conosce la scadenza. Il tempo a disposizione può essere molto come poco, persino pochissimo. Non sapendolo, tuttavia, lo scultore è chiamato dalla vita a utilizzare il proprio tempo in modo pieno e completo per portare a termine la propria opera unica e irripetibile. E «l’eventualità che egli non riesca a compierla non la destituisce di valore»6. Nessuna esistenza può essere dunque valutata in base alla sua lunghezza, ma in base alla ricchezza dei suoi contenuti, dei valori che è riuscita a realizzare nel tempo che le stato concesso. «Nella limitatezza del tempo e dello spazio terreno l’uomo deve compiere qualcosa, conscio sempre di essere mortale e tenendo ben presente la propria immancabile fine»7.

La vita e la morte costituiscono dunque un unico grande insieme, avvolto nel mistero (che concerne tutto ciò che sfugge alla comprensione razionale). Ma questo mistero non è mai destituito del proprio senso, a condizione che l’uomo prenda consapevolezza di essere «attaccato sul vuoto al suo filo di ragno»8, come recita un celebre verso di Ungaretti. Una condizione esistenziale che scorge il limite invalicabile della morte e che proprio per questo riconosce la propria responsabilità di fronte alla vita. Responsabilità che chiama in causa la libertà dell’uomo di prendere posizione nei confronti del proprio destino (il materiale grezzo dell’esistenza) per realizzare valori che concernono ciò che l’uomo riesce a creare, quanto riesce ad amare e sperimentare, come riesce a soffrire e persino a morire. Motivazioni che trascendono la vita e che in una certa misura la rendono eterna. Risultano nuovamente chiarificatrici e parenetiche le parole di Frankl, il quale afferma: «la responsabilità dell’uomo […] è rapportata alla singolarità e all’irripetibilità della sua particolare esistenza. L’esistenza umana è infatti un essere responsabile di fronte alla propria finitezza. Questa temporalità della vita non la rende […] senza senso: al contrario, è proprio la morte a renderla significativa»9. Seguendo le intuizioni frankliane è dunque verosimile rispondere alla domanda posta in esergo sostenendo, seppur con parola fragile e tremante, che è proprio l’orizzonte della morte a dischiudere il senso alla vita.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 20056, p. 108.
2. Ivi, p. 108.
3. M. Heidegger, Essere e Tempo, UTET, Torino 1969, p. 239.
4. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 108.
5. Ivi, p. 109
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. G. Ungaretti, La pietà, in Sentimento del tempo, in Giuseppe Ungaretti. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 19693, p. 171.
9. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 116.

 

[Photo credits: Matt su Unsplash.com]

Alessandro Tonon

curioso, attento, riservato

Sono nato nel 1991 a Conegliano e cresciuto a Castello Roganzuolo, frazione del comune di San Fior dove vivo attualmente. Dopo la maturità scientifica ho conseguito la laurea triennale in filosofia e successivamente la laurea magistrale in scienze filosofiche presso l’università Cà Foscari di Venezia (2015). In seguito ho conseguito il master universitario triennale in […]

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