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l’altro

Elogio dell’alterità: perché non possiamo negare l’altro

Non esiste scienza che abbia tenuto a margine il problema dell’identità, protagonista indiscusso delle riflessioni psicologiche, sociologiche, antropologiche e, naturalmente, filosofiche di ogni tempo. La filosofia, infatti, non si è sottratta al problema, offrendone risposte plurime e diversificate, tanto sul campo logico ed ontologico, quanto su quello etico e politico. Ma sebbene di identità hanno parlato in modo più o meno chiaro svariati pensatori, molto meno calcato si è rivelato il topos dell’alterità, portando a pensare, anche nel senso comune, all’altro come un non-ente e un non-uomo, un elemento trascurabile e sempre definibile via negationis per ciò che noi siamo e lui, in quanto altro, non è. Scopo di questo piccolo scritto è allora offrire un breve sguardo sull’altro, quella nota a margine della filosofia, quel semplice sottinteso che qui vuole essere risignificato, rivalutato, riconosciuto in quanto imprescindibile e coessenziale al noi.

L’intrinseco ed ineliminabile filo che unisce identità e alterità, “noi” e l’altro, è fin da subito rintracciabile nel momento in cui ci poniamo la domanda sul suo significato. Banalmente, identico si riferisce a ciò che rimane sempre uguale a sé stesso, ciò che non è altro da sé. Notiamo così come nella stessa definizione di identità sia situato il suo rovesciamento o, per dirla con Hegel, notiamo come nella sintesi in quanto tale sia necessariamente presente la negazione della tesi, l’antitesi, che non è più solo la privazione della tesi, «il niente astratto»1, ma ha un suo statuto, è «un essere altro»2 e un suo valore specifico, perfino costitutivo. A riprova di questo gioco dialettico tra identico e altro, ci rendiamo conto di quanto nel processo di creazione del proprio Sé socio-individuale sia imprescindibile riconoscersi in un dato habitat relazionale, un ingroup, il quale non solo definisce chi siamo e l’immagine che di noi abbiamo, ma si costruisce proprio in contrasto rispetto ad un outgroup esterno: è ciò che accade quando ci si identifica in una prospettiva politica, sentendocisi di sinistra e per questo non di destra; in un gusto artistico, apprezzando il rock e meno gli altri generi musicali; nutrendo alcuni interessi rispetto ad altri e per questo configurandosi in una comunità più o meno ampia di soggetti che con noi condividono le stesse caratteristiche.

Eppure è al contempo vero che nonostante sia comprovata l’indispensabilità dell’altro, l’alterità finisce spesso per essere minimizzata e semplificata e a dircelo sono fatti storici, attenzioni disciplinari, il nostro stesso punto di vista. Può sembrare cosa da poco, ma il rischio di una sottostima dell’alterità ha come risultato un gravoso duplice effetto di risposta: quello di naturalizzazione della propria identità e quello di negazione dell’alterità. Si tratta di due dinamiche simultanee — e tutt’altro che esotiche o saltuarie — per cui proprio quando tendiamo a naturalizzare, cioè normalizzare e assolutizzare i nostri tratti identitari, andiamo a dimenticare e rimuovere ogni tipo di diversificazione intra- ed extra-sociale. Quando, ad esempio, iniziamo a ritenere, sia questo per conformismo o strumentalismo, la nostra idea di famiglia, sistema politico, credo religioso e qualsivoglia costume come il solo ed unico esistente o accettabile, ecco che inevitabilmente l’altro, colui il quale si caratterizza proprio per il suo non condividere quel tratto, si configura come anormale, stigmatizzabile, un errore da correggere o cancellare. In questo modo se ne disconosce l’esistenza o se ne delegittima la presenza, portando a un gravissimo esito per cui l’altro diviene un mero minus habens, una presenza elisa e deculturata, traducendosi nel barbaro per il greco o nell’ebreo per il nazista, nell’indigeno per il conquistatore, fino ad arrivare ad altri ingiustificabili avvenimenti, molti dei quali meno noti e lontani da noi.

Ci si rende immediatamente conto, allora, del portato politico della questione dell’alterità, ma ancora prima dell’importanza di un’apertura alla molteplicità, una disposizione alla variabilità culturale, una complessificazione dell’altro che non solo è molto più che un calco in negativo di ciò che noi siamo, ma ha a sua volta specificità: l’alterità ospita l’identità come l’identità ospita l’alterità, è questo ciò che ci insegna Francesco Remotti, che a questo tema ha consacrato la sua longeva attività parlando di «ossessione identitaria»3 e ricordandoci, con tanto di concreti casi etnografici, che così come in noi è vivo l’altro, per questo tutto fuorché eliminabile, l’altro merita un suo riconoscimento. Perché ciascuno di noi è l’ebreo (o il barbaro) di qualcuno — direbbe Primo Levi — e perché l’alterità non è un disvalore, ma qualcosa di molto di più, come afferma Lévinas.

 

NOTE:
1. Cfr. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §91.

2. Ibidem.
3. Cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, 2010 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, 2009.

 

Nicholas Loru – Filosoficamente

 

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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