Ogni romanziere sa che scrivere un libro è difficile, ma scrivere l’inizio lo è ancora di più; gli incipit dei romanzi di Jane Austen sono invece del tutto naturali e portano subito il lettore al centro della storia perché in realtà racchiudono così tanti indizi del libro da lasciare tutti a bocca aperta.
“Bella, intelligente e ricca, con una dimora confortevole e un carattere felice, Emma Woodhouse sembra riunire in sé alcuni dei vantaggi migliori dell’esistenza; e aveva vissuto quasi ventun anni in questo mondo con scarsissime occasioni di dispiacere o dispetto”.
Scopriamo dunque già molto della protagonista –il suo aspetto e carattere, la sua condizione sociale, la sua età- ma soprattutto intuiamo che tutto il libro ruoterà attorno alle piccole beghe di una giovane donna che (probabilmente) si troverà finalmente a dover fare i conti con un po’ di dispiaceri e dispetti. Infatti è proprio così: le vicende si collocano nella tranquilla campagna di inizio Ottocento e nella sua piccola società, all’interno della quale l’autrice stessa viveva, e che è dunque capace di ritrarre con vividezza e grande acume, ma soprattutto con velata ma assai decisa ironia.
Ecco dunque che ci troviamo immersi nella vita di Emma e ci vengono via via introdotti tutti i caratteristici personaggi che la animano: da prima il rispettabile ma comicamente lamentoso padre, il signor Knightley, uomo deciso ed impegnato nella missione di smorzare la vanità della protagonista, così continuamente sollecitata dall’ammirazione di tutti, e poi ancora la giovane Harriet Smith, ragazza di ignoti natali e quindi di scarse pretese sociali, la quale però riesce involontariamente a suscitare su di sé l’interesse di Emma. La nostra eroina decide dunque di prenderla sotto la sua ala, ed essendosi congratulata con se stessa per (dubbi) meriti nell’essere riuscita a maritare la sua cara governante, la signorina Taylor (ora signora Weston) è ormai risoluta a combinare un matrimonio per Harriet.
Altri coloratissimi personaggi entrano progressivamente in scena, ciascuno dei quali capaci di strappare al lettore un sorriso e spesso un arricciamento di sopracciglia; molti di loro sono destinati a creare un certo scompiglio nella tranquilla comunità di Highbury, ognuno a modo suo: compare dapprima Jane Fairfax, una giovane da tutti ammirata ma misteriosamente riservata, poi la signora Elton, garbatamente insopportabile, infine il signor Frank Churchill, l’eroe tanto atteso ed universalmente ritenuto amabilissimo, eppure inconsapevolmente osservato con sospetto dal signor Knightley. Emma ha su tutti loro il suo ben deciso parere, una risolutezza che viene sempre messa in dubbio dalla vena ironica di cui la prosa di Jane Austen è pervasa: la protagonista infatti (e spesso insieme a lei anche il lettore) verrà puntualmente costretta a ricredersi, arrossendo ma sempre incapace di ammettere di aver preso vere e proprie cantonate, provocando la serie di equivoci tipica delle trame dell’autrice. Attraverso di essi il lettore può osservare la crescita psicologica di Emma, l’accortezza con cui impara a vedere il mondo e se stessa: il momento in cui decide di smettere di cercare di combinare il matrimonio di Harriet coincide infatti con la rivelazione del suo stesso cuore, da lei sempre trascurato nella sicurezza di essere sempre superiore a tutti i tormenti del comune essere umano.
Con questo libro si riscopre soprattutto il piacere della conversazione: il mondo di Jane Austen consiste infatti di piccole azioni ma di grandi conversazioni, è un mondo dove i dettagli non devono passare inosservati nemmeno al lettore. Nei dialoghi possiamo andare a caccia di verità nascoste, opinioni segrete celate in impercepibili termini e aggettivi scelti con cura, ma anche imparare quanto una conversazione sul niente possa diventare elaborata, quanto possa essere riempita di piccole e cerimoniose accortezze. Senza dubbio un mondo molto distante dal nostro, in cui comunicazione diretta e messaggi chiari vengono maggiormente apprezzati, tuttavia ci ricorda quanto può essere affascinante l’acume che può nascondersi in una normale conversazione.
Il lettore potrebbe scovare in questo romanzo una lunga serie di morali, nascoste tra le righe di brillante ironia uscite dalla penna dell’autrice, ma forse, la vera morale è che non ci sono morali né giudizi: averli è legittimo, ma attaccarsi ciecamente ad essi è presuntuoso, oltre che infinitamente sciocco.
Giorgia Favero
[immagini tratte da Google Immagini]