Ho sempre trovato estremamente curioso e quasi divertente che la parola idiota abbia come parente lontano l’idion del greco antico, che indicava lo stare appartato, chiuso nel proprio mondo, separato dagli altri e dal proprio contesto. L’idiota sarebbe appunto colui che eleva a ragione di vita la propria cocciutaggine, la propria coscienza spiccia, le proprie magre abitudini, sacrificando il mondo e le relazioni che lo avvolgono necessariamente e innalzando di conseguenza un muro comunicativo. Significa quindi vivere una condizione in qualche modo contraria alla necessità, alla natura del mondo. Idiota è per noi oggi solo un lieve insulto, ma non si allontana troppo dal senso antico.
Non è un caso che un celebre frammento di Eraclito reciti: «Per i risvegliati c’è un cosmo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si rivolge in un mondo proprio [idion]» (fr. 94). Il termine idion separa ciò che per gli uomini è comune ed è riconosciuto come tale e ciò che invece è privato e frutto di ignoranza. L’uomo è in errore se non sta presso ciò che è a tutti unico e comune e se crede di potersi astrarre da questa comunanza originaria.
Ciò che è comune è anche ciò che si nasconde dietro il termine comunicazione. Al giorno d’oggi è innegabile che essa sia uno dei pilastri per la comprensione del mondo e anche che abbia maggiormente luogo in internet e nei social media. Nonostante questi mezzi siano nati per creare rete, è altrettanto vero che l’effettività e la qualità delle relazioni di tipo informatico vadano spesso contro la reale socializzazione. Per non parlare del fatto che una buona parte degli input trasmessi siano in generale a scopo pubblicitario (in senso ampio, di promozione di sé, di prodotti, di ciò che si fa, di dove si è). Tutto ciò segue e ripropone, facendone parte appieno, il modello comunicativo informatico dell’input-output per cui un contenuto parte da una sorgente (o da un soggetto) e arriva al ricevente. Il messaggio può essere compreso perché il linguaggio fa da mezzo comune a entrambe le parti.
Attraverso questo modello si sperimenta quel distacco che caratterizzava (e caratterizza) l’atteggiamento idiota al mondo: a comunicare non è un gruppo più o meno ampio di uomini uniti ma un insieme di bolle solitarie connesse da legami deboli perché debole è l’idea di linguaggio sottostante. Se però da più parti oggi si vuole ritrovare una qualità superiore nelle relazioni umane, come si dovranno intendere la comunicazione e il linguaggio per questo scopo?
Lo schema comunicativo descritto sopra è chiaramente riduttivo, perché non fa altro che seguire l’impronta input-output che già eclissa in qualche modo la comunicazione dietro l’informazione. L’esplosione dell’informatica ha diffuso l’idea, già propria di una nicchia di pensiero principalmente analitico e neopositivista, per cui il linguaggio funga da mezzo tra due soggetti per lo scambio di pensieri. Questo modo di intendere la comunicazione rende sicuramente più veloce e sicuro lo scambio tra soggetti, ma ne oscura la sua essenza più propria, che invece è sempre stata a cuore alla filosofia tradizionale.
Martin Heidegger per esempio si scontrò personalmente contro la trascendentalità del linguaggio. Secondo il filosofo è necessario distinguere tra il parlare, che è «essenzialmente linguaggio» (Essere e tempo, Mondadori, p. 233), e l’enunciare, cioè il comunicare. Si comunica perché prima si dà il linguaggio in cui l’uomo si trova originariamente, così come originariamente si trova gettato in un mondo. Per questo il linguaggio è cooriginario (ivi, p. 232) all’essere del mondo ed è perciò immediatamente connesso a quest’ultimo e al suo trascenderci (cioè al non esserci per decisione o volontà dell’uomo). Il linguaggio così inteso è costitutivo dell’essere nel mondo. L’esserci dell’uomo testimonia l’essere del mondo, in cui si trova in relazione ad altri uomini. La relazione originaria comporta il comprendersi dell’uno con l’altro.
Il linguaggio è allora il terreno comune, lo sfondo onnicomprensivo che avvolge l’uomo dall’inizio del suo essere nel mondo e che fonda l’identità esistenziale ed etica dell’uomo stesso. Solo l’essere in relazione degli uomini, ovvero essendo già immersi in un linguaggio, permette la possibilità di enunciare, di comunicare. Parlare, però, nel senso originario di comprendersi con un linguaggio condiviso che non vuole solo trasmettere e informare, non è attuabile con chiunque. Solo nella nostra cerchia di persone, luoghi e modi di essere sappiamo di essere compresi e di comprendere. Il linguaggio che usiamo con i nostri amici, con i familiari, con chi amiamo, è incomprensibile all’esterno, non informa di nulla ma comunica tutto perché mette tutto in comune: il linguaggio fa incontrare veri e propri mondi che si interscambiano e che coesistono comunicando. La forma input-output di comunicare esclude, per necessità di velocità ed efficienza, l’intero spettro personale del linguaggio. Questo vero e proprio sabotaggio reclude la possibilità di un linguaggio vero al di fuori dell’autentica sfera comunicativa, nel proprio mondo privato, spianando il terreno a quell’idiozia contemporanea di un mondo atomizzato interconnesso ma essenzialmente muto.
Non si tratta ovviamente di una negazione di un certo modello comunicativo o di una certa idea di linguaggio, ma di una sua ricomprensione entro i limiti propri. E di lasciare che laddove la comunicazione urti, non basti o fraintenda, prenda il sopravvento un linguaggio più vicino all’essere che ognuno di noi vuole e deve custodire al meglio.