Le cose fragili, finite, precarie o rare sono le più preziose. La vulnerabilità è la condizione per cui qualcosa è, ma molto facilmente potrebbe non essere più. Che cos’è, vista più da vicino la vulnerabilità? E perché farsi questa domanda? In un’epoca in cui la nostra presenza sulla Terra e la stabilità dell’ecosistema mostrano tutta la loro fragilità, è importante far germinare una visione etica innovativa. Occorre guardare alla vulnerabilità con l’ottica di cambiare il paradigma di uso e consumo che affligge le condotte umane. La filosofia, dal canto suo, è sempre partecipe, nel bene e nel male, della costruzione dei paradigmi di pensiero che muovono l’evoluzione delle epoche umane. La sua nascita, secondo Aristotele, scaturisce dalla primigenia capacità umana di meravigliarsi di fronte all’esperienza della vita. Lo stupore diventò anche terrore e attestazione di finitezza, ma poi diede avvio a incredibili percorsi di ricerca di senso della vita. Finora solo gli umani sono riusciti a dimostrare di manifestare il pensiero con tanta complessità. Potremmo dire che, in qualche modo, la filosofia è una risposta alla constatazione della vulnerabilità della vita in tutte le sue forme. Essa è sguardo penetrante nelle transitorie parti di un tutto che si rinnova.
Con il passare delle epoche, la potenza umana è diventata tuttavia impressionante, ma mediante la tecnica non è oggi in grado di mettere in discussione il Tutto cosmico. Se esso rimane per fortuna fuori della nostra portata, siamo comunque ampiamente in grado di minacciare il nostro pianeta, sulla cui vulnerabilità la filosofia ha riflettuto forse non abbastanza. L’etica degli antichi non si curava di mettere al sicuro l’ecosistema, perché era già ritenuto in salvo, vista la pochezza dell’umanità nei suoi confronti. Le cose sono molto cambiate, da almeno duecento anni. Nel frattempo, la filosofia ha incoraggiato visioni di grandiosità della persona, in virtù del lume della sua ragione, del potere della sua volontà, della spinta all’autonomia del suo pensiero. Potremmo dire che dal cogito ergo sum di Cartesio, passando per l’imperativo categorico di Kant, la priorità del soggetto che assoggetta altro in quanto moralmente superiore è diventata il nostro marchio. Primeggia così una cultura dell’individuo e della forza, un cogito che esprime la sua potenza dominando altro da sé. Nell’ombra, invece, rimane una cultura che valorizza relazioni e interdipendenza tra persone in virtù di una vulnerabilità condivisa.
La tecnica, dal canto suo, ben cavalca la volontà di esprimere la superiorità su tutto ciò che si lascia prendere e manipolare, facendo della vulnerabilità una vergogna o una debolezza. Da occultare la prima, da sopraffare la seconda. Con le parole di Silvia Dadà: «Ciò che maggiormente risulta inadeguato rispetto alla rappresentazione del soggetto moderno è il carattere solipsistico, autosufficiente e autopoietico, il fatto che instauri un rapporto con l’alterità (di qualsiasi tipo essa sia) di possesso o controllo, e non di riconoscimento». (S. Dadà, Etica della vulnerabilità, Morcelliana, 2022, p. 16). Quello che ne è conseguito è una svalutazione della vulnerabilità, sia essa dei corpi fragili, invecchiati o meno abili, diversi dal paradigma del potere predominante (maschio adulto, bianco, etero, forte o furbo). Non solo umani, ma anche le forme di vita non umane, sono state rese oggetto da sfruttare a piacimento. La potenza prometeica ci ha donato il fuoco, ma non ci ha messo in guardia su come farne buon uso. Non ha speso parola sul prendersi cura delle nostre comunità e dei nostri ecosistemi mentre accrescevamo la nostra potenza.
A partire dal pensiero di Ricoeur e Levinas la filosofia ha iniziato a riflettere su relazione e fragilità, ma dal pensiero di Carol Gilligan (Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, 1991) è scaturito un pensiero innovativo. La Gilligan ha forse inaugurato il filone della cura come chiave di costruzione delle relazioni umane. La cura, storicamente affidata alle donne perché vista come espressione della presa in carico della debolezza, della fragilità e della sofferenza, è sempre stata marginale, fuori dai racconti di potenza e preminenza della ragione. Uno scarto, insomma, che spiegherebbe il suo stare fuori dalla narrazione principale, quella del progresso e dei più forti. La fragilità di turno, sia di umani più vulnerabili, sia di forme di vita prive di voce, rimane sempre nel dimenticatoio.
Nella nostra cultura lo sguardo verso la vulnerabilità necessita di essere cambiato, perché essa ci segnala laddove la nostra attenzione deve insistere per esortare la nostra capacità di presa in cura, che dovremmo elevare a cifra caratterizzante del nostro essere umani. In fondo, quando diciamo “in modo più umano”, intendiamo proprio questo: nel nostro linguaggio “umano” e “cura” sono già un tutt’uno.
NOTE
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