“Così il nostro gioco non finiva mai, e neppure ci veniva a noia, perché ogni volta che ci ritrovavamo con atomi nuovi ci pareva che anche il gioco fosse nuovo e quella fosse la nostra prima partita.”
(Italo Calvino, Giochi senza fine)
Armano soldatini di ferro e li preparano alla battaglia, fingono di mettere a bollire l’acqua sul fornello di plastica e accomodano sulle seggioline gli amici peluche per prendere il tè delle cinque. Usano pentole capovolte e con bottigliette schiacciate compongono note musicali; allestiscono pareti di cartone – attaccate con il nastro adesivo – e le decorano con i pastelli per poter mettere in scena il loro spettacolo…
«Stanno solo giocando» si sente ingenuamente uscire dalle bocche delle loro mamme, senza pensare che in quel “solo” si nascondono un’infinità di mondi fantastici che sono lì, ad attendere che qualcuno li veda, li scopra e li sperimenti tramite, appunto, il gioco. I bambini sanno distinguere perfettamente la sottile linea che differenzia la realtà dalla finzione, divenendo esperti attori e attrici nell’interpretare i giochi della loro fantasia.
Il gioco, tratto distintivo dell’infanzia, è un simbolo che porta alle spalle secoli di storia e – tra un nascondino, una finta festa di compleanno e un facciamo finta di… – si svelano le più veritiere immagini archetipiche. Nel gioco simbolico si è al contempo se stessi, ma anche “altro”. Durante il tempo di un gioco si sperimenta tutto ciò che l’adulto realizzerà nel corso della vita. Ci sarà complicità e cooperazione, solitudine e allontanamento, sfida, inganno, imitazione, sottomissione alle regole, ma anche ribellione e fuga. Ci sarà il tentativo di dar senso alle regole morali della vita collettiva del mondo reale, ma anche la destrezza di modificare a proprio piacimento le “regole del gioco”.
È raro sentir dire dai bambini “non voglio giocare”, ma tuttalpiù si sentirà un “non voglio più giocare a questa cosa”. Ed ecco che continuamente si passerà da un gioco all’altro, riadattando la scenografia e mettendosi addosso la pertinenza del nuovo personaggio da far entrare in scena.
I bambini sanno perfettamente giocare da soli e creano da sé ciò di cui hanno bisogno; ecco perché non esitano nemmeno un secondo a far di un cucchiaio uno specchio. Ma i giochi sono anche strumenti creati dagli adulti per i bambini; ed è qui che nasce l’eleganza e lo stile della costruzione. Prendi un gioco, osservalo attentamente, scrutane i dettagli e scoprirai se il fine per il quale è stato creato è riuscito nell’intento o no.
Appare infatti che lo scopo per il quale vengono creati i giochi sia cambiato. Sembra che l’essenzialità della funzione simbolica sia passata in secondo piano e anziché creare giochi “aperti” che stimolano fantasia ed esplorazioni possibili, se ne creano altri “chiusi” che obbligano a godere dell’acquisto in un’unica maniera.
Entrare in un qualunque negozio di giocattoli, per un bambino, è sempre un’esperienza fantastica e ricca di stupore; tutte quelle cose in vendita lo fanno viaggiare in un universo di possibilità non ancora realizzate. Ma l’adulto dovrebbe far attenzione alla qualità e alla quantità del messaggio ludico. Scatole grandi per giochi piccoli; plastica e cartone che una volta scartati fanno tenere il giochino nel palmo di una mano. Alle sfumature tenue, calme e rilassate prendono il posto colori sgargianti che attirano immediatamente, ma al contempo inquietano, agitano e ben presto stufano. Costruzioni con le quali costruire l’impossibile, ma accompagnate da foglietti illustrativi che spiegano step by step che cosa montare e che cosa tralasciare. Bambole che danno ben cinque risposte diverse, ma ci obbligano a fare solo cinque domande. Giochi talmente pieni di dettagli e particolari che si fatica perfino a capire cosa si potrebbe aggiungere o togliere. Personaggi dall’identità e caratteri perfettamente delineati che fanno dire: «io sono così, punto». Catturano l’attenzione, ma chiudono l’immaginazione.
Non c’è nulla di diverso fra due bambini che fingono di esser pesci e vivere in fondo al mare, a un adulto intento a scrivere un romanzo d’avventura. O ancora, da una ragazza, seduta sul divano, che immagina cosa sarebbe successo se fosse uscita di casa quella sera. In tutti questi casi si vagliano situazioni possibili e controfattuali, per poi decidere il da farsi. La differenza è che i bambini, con il gioco, possono permetterselo di farlo sempre. Perché quello è il loro “lavoro”. E l’adulto che ben volentieri usa timbri di voce poco melodiosi – quando non se ne presenta assolutamente la necessità – non dovrebbe interrompere la magia e l’autonomia di quel fervore giocoso. Non dovrebbe ostacolare i bambini con comandi del tipo: “No, sbagli!”, “Non devi!” o “Fai così”; e nemmeno col ricatto del “Continua a farlo e non ti compro quella cosa”.
È facendo così che, la suggestione data dal loro facciamo finta di finirà per sbiadire…
Giorgia Aldrighetti (FcB Team Ricerca, Università di Trento)