C’è stato un tempo in cui la filosofia non si presentava solo come un’attività puramente teorica e speculativa ma come un esercizio spirituale, come un lavoro da compiere su se stessi che se condotto con costanza era in grado di trasformare il modo di vivere dell’individuo.
Questo particolare tipo di filosofia, definita ellenistica, si sviluppò nel periodo compreso tra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la battaglia di Azio (31 a.C.). Per secoli quest’epoca è stata considerata come una fase di reflusso e di declino. Si pensava che, a seguito del raggiungimento del culmine filosofico attraverso il pensiero idealista di Platone e della pienezza scientifica con le ricerche di Aristotele, le circostanze storiche e una certa stanchezza dello spirito avessero condotto dall’ottimistico e fiducioso slancio verso la conoscenza del mondo esterno ad un ripiegamento dell’individuo su sé stesso. Era questa la visione con la quale si tendeva a considerare le scuole filosofiche più rappresentative di questo periodo: cinica, epicurea, stoica e scettica.
Ad animare queste correnti non era solamente lo spirito speculativo o teorico. Quello a cui aspiravano era sapere tutto il necessario per soddisfare una necessità angosciante: condurre una vita felice, priva di ansie, paure e conforme alla natura umana. Il loro scopo non era quello di esporre un sistema, ma produrre piuttosto un effetto formativo: il filosofo, attraverso questi esercizi, voleva far lavorare lo spirito degli ascoltatori affinché si ponessero in una certa disposizione d’animo.
Tali esercizi erano delle vere e proprie attività che consentivano – e consentono ancora oggi – di elevarsi alla vita dello spirito oggettivo, collocandosi nella prospettiva del Tutto.
Per tutte le scuole, la principale causa di sofferenza, di disordine e di incoscienza derivava dalle passioni, dai desideri disordinati e dai timori esagerati. Per gli Stoici, ad esempio, l’infelicità derivava dal fatto che continuamente cerchiamo di conseguire o di conservare beni che rischiamo di non ottenere o di perdere ed evitare mali che spesso sono inevitabili. È per questo che uno dei punti fondamentali della loro filosofia era il controllo di sé come fondamentale attenzione a sé stessi. Grazie ad essa il filosofo era in grado non solo di distinguere tra ciò che dipendeva da lui o meno, ma anche di sapere e volere pienamente ciò che in ogni istante stava facendo. Secondo questa visione le uniche cose che dipendevano interamente dalla sua libertà erano il bene e il male morale; il resto corrispondeva alla necessaria concatenazione delle cause e degli effetti che sfugge alla nostra libertà.
Un altro esercizio era la meditazione. Legata ad un’attivita puramente razionale, immaginativa e intuitiva essa consisteva nella memorizzazione dei dogmi fondamentali e delle regole di vita della scuola. Questa pratica era in grado di ispirare esercizi dell’immaginazione in cui le cose umane apparivano scarsamente importanti, se paragonate all’immensità dello spazio e del tempo, ed era anche in grado di permettere all’individuo di essere pronto a una circostanza inattesa e drammatica. Ciò serviva per lasciare una traccia, per imprimere un segno nell’anima, per avere sempre a portata di mano un “kit di sopravvivenza” al momento del bisogno. Questo perché quando siamo preparati le cose ci spaventano meno. Il vero dramma avviene quando esse ci capitano quando meno ce lo aspettiamo, quando appaiono all’improvviso e quando dentro di noi non abbiamo un altro metro di paragone per affrontarle.
Anche la definizione era un esercizio praticato: «occorre sempre dare una definizione o descrizione dell’oggetto che si presenta nella rappresentazione, al fine di vederlo in sé stesso, qual è nella sua essenza, messo a nudo tutto intero e in tutte le sue parti» (M. Aurelio, Ricordi, 11). Con questo metodo era dunque possibile definire l’oggetto o l’evento in se stesso, spogliandolo e separandolo da tutte quelle rappresentazioni convenzionali che gli uomini se ne fanno abitualmente.
L’idea di questi esercizi era dunque quella di permettere ad ogni individuo di diventare ogni giorno la versione migliore di sé, consentendo all’Io di ritornare in sé stesso, liberandolo da tutto ciò che gli impedisce di vivere appieno la propria vita. Il consiglio è quindi quello di «Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un esercizio spirituale, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare… Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Esternarsi superandosi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta» (G. Friedmann, La Puissance et la Sagesse, 1970).
Edoardo Ciarpaglini
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