Fremont, film del 2023 diretto dal regista iraniano Babak Jalali – che ha anche sceneggiato la pellicola assieme all’italiana Carolina Cavalli – è disponibile su Raiplay.
Girato interamente in bianco e nero e in formato 4:3, il lungometraggio ha per protagonista Donya (Anaita Wali Zada), giovane rifugiata afghana che da qualche mese vive a Fremont, California, e lavora per una fabbrica di biscotti della fortuna.
La vita di Donya è semplice e scandita dalle medesime abitudini: il lavoro, qualche chiacchierata con l’esuberante collega Joanna, la cena, ogni sera, nel ristorante mediorientale il cui proprietario è appassionato di telenovele; e infine le brevi conversazioni con alcuni suoi vicini di casa, afghani come lei. Uno su tutti Salim, che frequenta uno psichiatra, e che per passare il tempo offre un caffè a Donya, che lei rifiuta perché soffre di insonnia. Scopriamo quindi che anche Donya attende che il servizio sanitario le fissi un appuntamento con uno psichiatra, poiché la sua insonnia sta diventando insopportabile.
Salim le cede uno dei suoi appuntamenti e Donya incontra lo psichiatra, il dottor Anthony. L’uomo le spiega che gli appuntamenti non sono interscambiabili, ma lei, decisa a trovare una soluzione per la sua insonnia, rimane. Iniziano così le loro sedute, nel corso delle quali Donya, a fatica, risponde alle domande del dottore. A Kabul, dov’è nata e dove risiede la sua famiglia, Donya lavorava come traduttrice per l’esercito americano – lo faceva per ottenere il visto per potersene andare via. Il dottore le chiede se ha assistito a operazioni di guerra, le parla dello stress post-traumatico e del senso di colpa che chi è riuscito a fuggire da una zona di guerra prova nei confronti di chi è rimasto.
Donya ascolta, e sebbene all’inizio sembri minimizzare e insista solo nel chiedere una prescrizione per dei sonniferi, a mano a mano si apre maggiormente.
Al lavoro viene inoltre promossa: è lei, ora, a scrivere i messaggi contenuti nei biscotti della fortuna. Il suo capo le spiega questa “delicata arte”: chi scrive i messaggi della fortuna ha una certa responsabilità, perché inconsciamente o meno, essi «agiscono sul flusso delle cose». Ecco perché non devono essere né felici né tristi, né lunghi né corti, né originali né banali. «La virtù è nel mezzo» dice il capo di Donya: è basandosi su questa antica citazione che lui e suo padre hanno fondato la loro fabbrica.
Una citazione aristotelica (il filosofo ne parla nella sua Etica Nicomachea) che rimanda a una vita vissuta secondo ragione, priva di eccessi. Virtuoso è, infatti, chi esercita la ragione stando in quella sana ed equilibrata medietà, tenendo a bada i sentimenti (ma non cancellandoli). È quasi ciò che fa Donya: la sua è un’esistenza (fin troppo) tranquilla, senza eccessi – la ragazza non esce mai dal sentiero che si è “costruita” lì in America. Ma la sua emotività e la sua solitudine emergono: quando chiacchiera con la sua collega, che va a molti appuntamenti combinati e vorrebbe che ci andasse anche Donya. O quando una sera chiede al suo vicino Salim se sarebbe giusto innamorarsi e trovare un compagno, quando a casa loro, in Afghanistan, la guerra ancora imperversa.
Donya parla di ciò che è accaduto in Afghanistan con lo psichiatra, facendo in effetti emergere il senso di colpa cui lui aveva accennato: la ragazza lavorava con altri tre traduttori e anch’essi aspettavano il visto per potersene andare. Ma uno di loro ha perso la vita, e dell’altro non sa nulla. Lei è stata fortunata, dice. Anche se ora si trova in un paese straniero, completamente sola. Anche se la sua famiglia, rimasta a Kabul, riceve offese e minacce di morte a causa di quella loro figlia traditrice, che ha lavorato con il nemico per potersene andare da lì.
Ma è evidente che la vita – né quella di Donya, né quella di nessuno – non possa essere solo razionale ed equilibrata medietà. Ecco perché Donya non prende mai sonno, ed ecco perché si decide, finalmente, ad aprirsi al mondo dei sentimenti. Accetta di presentarsi a un appuntamento al buio, anche se le cose non andranno come previsto. Nella sua vita fa capolino l’inaspettato, sotto forma di un ragazzo gentile e un po’ impacciato, nonché solitario, che incontra sulla strada per il suo appuntamento – interpretato dall’ormai celebre Jeremy Allen-White.
Quale sarà l’epilogo? Senza voler svelare nulla, faccio emergere il quesito sul quale il film porta a riflettere: è giusto vivere pienamente, abbracciando anche l’irrazionale e l’imprevedibile, nonché le emozioni (devastanti in guerra, sublimi in pace), anche se qualcuno a noi vicino soffre, non c’è più o è stato molto più sfortunato di noi? E ancora: rifiutando la vita nella sua sconcertante e contraddittoria pienezza, stiamo davvero rispettando i meno fortunati, o piuttosto punendo inutilmente noi stessi?
NOTE
Photocredit elbegsaikhan Tsogtbayar via Unsplash