Un lavoro, un/a compagno/a di vita, una vacanza, la laurea o il diploma, un’uscita con gli amici, un aumento in busta paga, un figlio, la concessione del mutuo, l’inizio di una nuova attività, un abbraccio o un bacio, il Natale, un successo sportivo, una risposta, la fine di qualcosa, la guarigione, la morte, la vita. Passiamo la nostra esistenza ad aspettare – o meglio, forse, sono tante le cose che attendiamo giorno per giorno, a volte in modo ossessivo, a volte vano. Nessuno meglio dei prìncipi dell’attesa della cultura occidentale può raccontarcelo: Estragone e Vladimiro, protagonisti (presenti) del capolavoro di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952), le cui riflessioni apparentemente (o veramente) senza senso continuano ancora oggi a pungolarci.
Siamo nel teatro dell’assurdo, una scenografia scarna con pochi personaggi sul palco che non fanno altro che aspettare questo signor Godot, sulla cui identità – fuori dalla sceneggiatura – da decenni ormai le teorie si sprecano – Dio? Impersonificazione della fortuna? Della morte? –, liquidate tutte fin da subito da Beckett stesso che diceva che non sapeva neanche lui chi fosse Godot. Ed è forse proprio questo il punto che rende l’opera così universale.
Di recente se n’è appropriato anche il cinema italiano con Grazie ragazzi di Riccardo Milani (2023), uscito nelle sale da poche settimane e trasposizione dell’originale francese che racconta la storia vera di un attore svedese. La storia di un gruppo di detenuti al quale viene proposto un laboratorio di teatro per mettere in scena proprio l’opera di Beckett. Chi del resto meglio dei carcerati – vuole convincerci l’attore-insegnante di teatro Antonio Albanese – può interpretare al meglio l’attesa continua? L’attesa “del pasto, dei colloqui, dell’ora d’aria, del giorno dopo”, ma soprattutto del giorno della libertà, la madre di tutte le attese.
E così quattro uomini tra loro assai diversi vestono i panni dei quattro principali personaggi di Beckett, mettendo in scena quei dialoghi magistralmente assurdi proferiti per ingannare l’attesa – o meglio proprio perché ne sono intrappolati. Su quel palco l’esistenza perde e riassume valore («Ci suicidiamo oggi o domani?», e poi «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?»), si alternano momenti di calma e di tensione, d’ilarità e di rabbia, ritorna puntualmente il tema della memoria: «Sono infelice», «Ma no! Da quando?», «Me n’ero dimenticato», «Sono scherzi che ci fa la memoria». I personaggi dimenticano cos’hanno fatto ieri, non sanno se ricorderanno domani cos’hanno fatto oggi («non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi»), addirittura si dimenticano quello che stanno facendo, cioè aspettare Godot («Che facciamo adesso?», «Aspettiamo Godot.», «Già, è vero»). Presi talvolta da un’apatia di vita, ogni giorno è sempre uguale nell’attesa.
Così in carcere. In una commedia che strappa più di una risata, Grazie ragazzi ci ricorda il potere salvifico dell’arte, la sua capacità di fare breccia nelle mura dell’isolamento, di un’arroganza e menefreghismo costruiti, riportandoci lì dove vogliamo stare, nelle relazioni autentiche e nella bellezza della vita; l’arte che prova a darci una seconda chance o che semplicemente allevia le nostre sofferenze, ci apre una prospettiva nuova. Però ci fa rivalutare anche il sapore del sole sul viso e di un orizzonte ampio, la possibilità di aprire qualsiasi porta e di andare dove vogliamo: in altre parole, della libertà. Una libertà a volte davvero molto fragile e che quando negata ci rinchiude in questo vortice d’attesa. Il film non indugia nel raccontarci perché Damiano, Mignolo, Diego e Radu (con l’unica eccezione di Aziz) sono in carcere, affinché il nostro giudizio possa andare oltre l’evidente fatto, seppur non trascurabile, che hanno compiuto un gesto illegale, inducendoci a non trascurare nemmeno l’umanità che resta al di là delle azioni. Un’umanità nella quale possiamo ancora a sentirci fratelli. Scevro da pietismo e buonismo, il monologo finale di Albanese vuole parlarci dritti al cuore proprio per non lasciarci inermi di fronte allo scorrere del tempo e della vita, e per non voltare lo sguardo lontano dalle tragedie dell’esistenza e della società, arroccati nel pregiudizio. Soprattutto in vista della conclusione del film, un po’ amara ma reale, svincolata dagli happy ending da commedia per restare aderente alla storia originale e anche a un senso di giustizia terrena.
Qualcosa di particolarmente importante però ci distingue da Estragone e Vladimiro e dagli inaspettati attori del film di Milani, ed è questo: loro restano e noi ci muoviamo. Il duo di Beckett rimane accanto all’albero, immobile, mentre noi sfogliamo l’ultima pagina e chiudiamo il libro; Diego, Damiano, Aziz, Radu e Mignolo (attenzione, spoiler!) tornano in carcere mentre noi ci alziamo dalla nostra poltrona comoda e usciamo dalla sala. Abbiamo la nostra occasione di raccogliere tutte le riflessioni del caso e andarcene, farne qualcosa, non vanificare attese e speranze. Inseguendo con rinnovata grinta Godot, oppure lasciandolo finalmente andare.
[photo credit Felix Mooneeram via Unsplash]