Non se ne può parlare. Non è il caso. Non è né il momento né il luogo per questa tematica. Non lo è mai. Ci sono argomenti di cui non si può parlare, è inutile, è stato deciso così dalle regole subliminali che regolano i rapporti e che guidano i nostri comportamenti, i nostri dialoghi. I cosiddetti “argomenti tabù”, che non trovano spazio in nessuna aula, a nessun tavolo, in nessun susseguirsi di dialoghi, non ve n’è l’ombra in quel brusio che anima i grandi e piccoli spazi in cui veniamo catapultati ogni giorno. È un proibizionismo dialogico e, se mi ritrovo qui a parlarne, pure letterario. Tale atteggiamento però, si sa, genera l’effetto opposto, ovverosia la ribellione, fa germogliare un seme di curiosità e desiderio nei confronti di ciò che ci è categoricamente negato. Un genitore deve fare attenzione a ciò che nega al figlio e con quanta durezza mantiene tale divieto, al fine di non generare una micro-ribellione, una scintilla che accende l’animo di un bambino oggi e di un popolo domani.
La buona letteratura, perché penso che ve ne sia anche una di tutt’altro stampo, fa leva su questo oceano di non detto, di dialoghi mai avvenuti, di argomenti mai trattati. Si pensa sempre di doversi presentare al mondo con la teoria innovativa, l’idea delle idee, dimenticando forse di parlare anche “solo” di ciò che ci sta attorno, quelle cose che ognuno di noi coglie, che aleggiano nell’aria e che magari sono mancanti di una vera e propria sostanza, magari a causa di un insulso quanto sormontabile divieto.
Marie de Hennezel ne La morte amica ci porta una testimonianza fondamentale, impregnata di tutto quell’insensato silenzio che sta attorno a certi argomenti. Il contrasto con la percezione che sempre si ha avuto nei confronti di un tema come la morte si evince già dal titolo, provocatorio, pericoloso quanto pieno di narrazione ed emozione da offrire al mondo. Come può essere “amica” la morte? Come le si può accostare ad essa la qualità dell’amicizia, contrapponendo la sensazione di estrema negatività all’estrema positività? Ebbene è proprio qui che Marie pone il suo messaggio fondamentale, tanto importante quanto distruttivo. Abbattendo la bolla del silenzio in cui si ritrova il soggetto che deve aver a che fare con al morte, bolla in cui sono rinchiuse anche le persone vicino a lui, vinte dalla disperazione e dall’incapacità di proferire parola, è qui che si può riscoprire il vero senso della relazione e, se vogliamo, della vita stessa. La mia folle ed ottimista visione vede un’esplosione di vita all’interno del dialogo, una forma di comunicazione che in fin dei conti richiede un sola ed ovvia, ma non banale, condizione: l’amicizia. Se si è amici nel vero senso del termine, se si riesce a non dubitare di tale legame in un’ipotetica domanda a bruciapelo che permette due sole vie, il dialogo viene da sé, senza forzature e senza eccessive richieste. Un dubbio, un’esitazione in un momento così fondamentale aprirebbe le porte ad un pensiero in un territorio in cui il pensiero non dovrebbe trovare collocazione alcuna.
La naturale sincerità che si evince dai racconti di Marie ci offre una visione non più solamente negativa di un momento decisivo della vita, quale la morte. Rinchiudersi in un silenzio e lasciarsi vincere dalla paura, dalla presupposta impotenza, ci consegna ad una vera e propria sconfitta vitale, in cui a morire per primo è il dialogo e l’umanità. «Comuni sono le cose degli amici» recita un passo del Fedro di Platone, riportandomi insistentemente sul concetto di dialogo, comunicazione ed amicizia. Comunicazione dico, intendendo un mettere in comune qualcosa tra due persone che si scambiano uno sguardo di reciprocità, di equilibrio tra la domanda e l’offerta umana ed affettiva. Davanti alla morte dobbiamo perdere tutto questo? Penso proprio di no anche se il sentimento negativo e distruttivo tenta di rivoltarci emotivamente dandoci delle risposte che non siamo pronti ad avere, facendoci vedere tutto quel male che è proprio della fine, quella verità che si pone come unica ed incontrovertibile, e dunque la stessa conclusione del rapporto tra noi ed una persona cara che sta morendo. Con una grande dose di coraggio si può guardare in faccia questa verità, senza tentare di confutarla, poiché come lo stesso principio di non contraddizione aristotelico, anche se noi provassimo a negarla, ci ritroveremmo ad affermarla.
Cosa resta da fare allora? Ritornare indietro, ritornare a quando quella verità non si era ancora presentata nella nostra vita e senza volerla allontanare ripercorrere le strade della vita assieme alla nostra persona cara, ricordarsi ciò che c’era prima di quel male così grande per scoprire il bene che ancora è possibile tra due “sole” persone, all’interno del semplice ponte del dialogo e dell’amicizia. È questo che fa Marie de Hennezel, a sue spese in termini di transfert, ricordandoci quanta responsabilità ci voglia nel prendersi cura dell’altro con la consapevolezza di doverlo lasciare, salvargli la vita per quel che ne rimane di essa. Tale lasso di tempo, anche solo qualche giorno, una settimana riconsegnata a chi si era rassegnato a morire ogni giorno fino alla fatidica conclusione, questo può essere il dono più grande che possiamo dare e non solo verso chi si sta avviando verso la sua naturale conclusione, bensì a tutte quelle persone che incontriamo e che dovremmo guardare più a lungo, ascoltare più a lungo, farle vivere nella relazione con noi stessi.
«Agisci come se quel fai facesse la differenza. La fa», diceva William James, e mi permetterei di aggiungere “pur sapendo che farà male, che si potrà rivelare più breve di quanto lo si potesse immaginare. Non sarà davvero così breve”.
Alvise Gasparini
Fonti immagini: https://lamenteemeravigliosa.it/la-morte-segno-vita/