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I competenti

Non si può fare politica senza pronunciarsi su questioni che nessun uomo sensato può dire di conoscere. Si deve essere infinitamente stupido o infinitamente ignorante per avere un’opinione sulla maggior parte dei problemi posti dalla politica.

P. Valéry, Des partis

Sono molti i luoghi in cui Galimberti mette in evidenza come, sotto la spinta dell’iperspecializzazione che lo sviluppo della tecnica (mi permetto di specificare, questo sviluppo di questa tecnica) ci richiede, la democrazia sia destinata ad estinguersi per mancanza delle competenze tecniche necessarie per prendere una decisione su uno specifico tema – sicché, le decisioni vengono poi prese con la “pancia” e i politici diventano affabulatori di masse incompetenti (su questo, una scorrevole e affascinante lettura può essere il suo La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica).

Le implicazioni etiche di un simile scenario sono state individuate dalla Arendt nel suo dirompente La banalità del male dove identifica nella specializzazione, e quindi nello specialista (in quel caso, della “soluzione finale”, amministrata come un qualsiasi indifferente atto specialistico: Eichmann), la fine non solo della possibilità di pensare ma anche della facoltà di giudicare, quindi della responsabilità – tema già anticipato nel’44 da Camus (Eichmann in Jerusalem è del ’63), quando nel suo articolo Non tutto si sistema (pubblicato su Lettres françaises, giornale clandestino del Comité national des écrivains, con un certo imbarazzo), imputa al membro del Governo Vichy, Pucheu, un torto che definisce come “mancanza di immaginazione”; tipica, oggi lo si può constatare ancor più di ieri, dello specialista.

Stando così le cose, il problema non risulta superabile né trasformandoci in “tuttologi”, né diventando claustrofobici iperspecialisti. La prima cosa non è, per fortuna, realizzabile. La seconda è antidialettica, perché circoscrive il pensare all’interno di parametri predefiniti, rendendolo quindi nient’altro che una funzione di quei parametri (con tutte le implicazioni e conseguenze culturali, sociali, politiche ed etiche che molti pensatori contemporanei hanno già evidenziato).

Sia chiaro, con questo non voglio dire che lo specialista non abbia diritto di cittadinanza in società: se devo essere operato voglio esserlo da un chirurgo professionista. Sto dicendo invece che non si può assumere il pensiero specialistico come se fosse quello migliore, se non addirittura l’unico, per prendere decisioni – peraltro, senza neanche chiedersi quali siano i fondamenti culturali dello stesso. In parole povere: al mio computer chiedo di navigare su internet, ma non chiedo di dirmi il significato di internet.

Ecco allora la chiave di volta, che stiamo sempre più dimenticando: il significato.

Quando siamo interrogati su questioni su cui non siamo tecnicamente competenti (dalle centrali nucleari, alla ricerca medica, alle trivellazioni petrolifere…), non siamo necessariamente destinati al silenzio, o a dire la prima cosa che ci passa per la testa (questa è la democrazia oggi) o ad una rapida acquisizione di competenze tecniche (cosa impossibile; inoltre l’ostentazione di qualche superficiale competenza ci fa diventare ancor più grotteschi di chi parla senza competenza alcuna). C’è invece un’ulteriore possibilità, a mio modo di vedere, quella sensata: porci un problema di significato. Ovvero, non soffermarsi su misurazioni e calcoli tecnici relativi ad un evento, ma sul significato di quell’evento nel mondo.

Sul significato nessuna misurazione o calcolo può dire qualcosa, dato che un significato non è quantificabile. Le competenze tecniche sono incompetenti in materia di senso. L’incompetente par excellence, dunque, è l’ipercompetente su qualcosa.

Ma in quale luogo del mondo si può oggi apprezzare non una calcolazione tecnica degli eventi ma un’interrogazione del loro significato, se anche l’attività del pensare è nelle università sempre più ridotta ad una misurazione che ne attesti la competenza?

Federico Sollazzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

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