“Coloro che a noi sembrano semplicemente una massa informe di immigrati sono persone con diverse storie, con bagagli culturali ed esperienze molto varie, sono comunque individui che- prima di essere immigrati in un paese come ad esempio l’Italia- sono “emigrati” da un altrove a noi ignoto.”
Renate Siebert
Gli immigrati sono divenuti oggi, era della globalizzazione, del principio d’uguaglianza, della fine del dominio coloniale e della frantumazione del sentimento d’appartenenza nazionale il bersaglio prediletto del razzismo.
Volgendosi contro un gruppo di persone accomunate soltanto dal fatto di possedere una tradizione e una cultura differente da quella occidentale, il razzismo trova giustificazione tra la popolazione, perché non ricorre più alla categoria della razza, della differenza biologica tra individui di pelle bianca e individui di pelle nera ormai smentita dalla scienza.
Tuttavia pare lecito chiedersi se possa mai esistere una giustificazione valida per il razzismo, posto che tutti gli atteggiamenti derivanti da esso vanno a costituire un filtro tra le persone, che ne impedisce il reciproco riconoscimento.
La sfida della nostra epoca, secondo la sociologa Renate Siebert, consiste quindi nel disimparare il razzismo che si annida nelle relazioni quotidiane, che serpeggia nei sottotitoli dei quotidiani locali, che viene nascosto tra un emendamento e l’altro tentando così di passare inosservato.
Il dovere di ciascun uomo oggi consiste nell’autocritica, nella riflessione quotidiana sui gesti che compie in modo da scovare dove si annida il razzismo e sconfiggerlo, perché questo è una passione, come diceva Sartre, che l’uomo deve vincere per poter instaurare delle relazioni interpersonali, basilari per la la realizzazione della vita propria e altrui.
Il punto di partenza dell’analisi condotta dalla sociologa Siebert in merito al razzismo è l’uomo, e tale scelta contrasta palesemente con le leggi che ogni stato Europeo ha prodotto per dotarsi di una politica migratoria completa, le quali mettono al centro l’interesse economico.
Siebert comincia dal “L’uomo invisibile” richiamando il titolo dell’opera scritta da Ralph Ellison nel 1947, infatti colui che vive sulla propria pelle il razzismo sente di non contare nulla per la società in cui vive, la quale si disinteressa totalmente delle sue azioni, dei suoi bisogni e dei suoi pensieri e si accontenta dell’immagine stereotipata che le viene fornita dai mezzi di comunicazione.
Accade così che, rifiutando di vedere l’altro e negandogli l’esperienza della relazione interpersonale, gli uomini si macchiano le mani di una grave colpa, infatti diventano responsabili del mancato processo di identificazione.
L’ altro, che solitamente è colui che si differenzia per il colore della pelle, ottiene di rimando un’immagine corporea e un’identità disturbate, infatti non vede riconosciuta la sua specificità ma si sente inglobato all’interno di una categoria, come ad esempio “il marocchino”, e per questo prova dapprima vergogna, fino ad arrivare ad una vera e propria sofferenza fisica e mentale. L’atteggiamento razzista fa provare sulla pelle di coloro che ne sono vittima il rifiuto fisico del loro corpo da parte di altri, il disprezzo, la nausea e di conseguenza porta all’isolamento e alla solitudine.
I danni del mancato riconoscimento non si limitano però a ledere irreparabilmente l’umanità di un singolo individuo, ma vanno ad intaccare le identità di tutti gli individui che gli gravitano attorno, infatti sopprimendo una differenza, perdiamo per sempre la possibilità di relazionarci con essa e di costruire il nostro Io tenendone conto.
“Riconoscere il rapporto con l’altro come costitutivo della mia stessa identità vuol dire che la mia autorealizzazione non può andare disgiunta dall’autorealizzazione dell’altro, che la mia autonomia non può essere promossa senza promuovere l’autonomia dell’altro. Come ha mostrato Hegel, l’identità non può essere costruita senza rapporto con la differenza: quando l’identità viene costruita semplicemente contro l’altro, in via di principio sto lavorando contro la mia stessa identità, in quanto tendo a distruggere uno dei suoi elementi essenziali, ovvero la possibilità di vederla riconosciuta dall’altro.”
Utilizzando le parole di Franco Crespi, Siebert sposta l’asse della sua analisi dal singolo soggetto vittima di razzismo all’insieme degli esseri umani che costituiscono la società e afferma che il bisogno primario di qualsiasi uomo sta nel vedersi riflesso nello sguardo altrui.
L’esistenza dell’alterità diviene allora un presupposto fondamentale per poter vivere, se non esistessero altri soggetti che riescono a vederci per intero, non riusciremmo a ovviare alla nostra costitutiva incompletezza, e soprattutto senza lo sguardo altrui non appagheremo il bisogno di riconoscimento.
Per avvalorare la sua tesi la sociologa di origine tedesca fa ricorso alla dialettica servo-padrone di Hegel, il quale pone un padrone e un servo, apparentemente opposti, inconciliabili ma che si scoprono essere l’uno legato all’altro, in quanto il padrone non sarebbe tale se non avesse un servo che così lo riconosce e lo stesso vale per il servo, che non esisterebbe senza lo sguardo umanizzante del padrone. Sia il servo che il padrone partecipano attivamente a questa lotta per il riconoscimento, sono in una condizione di reciprocità assoluta, mentre nel rapporto minato dalrazzismo l’individuo che viene considerato diverso viene escluso totalmente dalla dialettica perché ritenuto estraneo al genere umano.
Tra le ragioni che portano l’uomo “bianco” ad estromettere dalla dialettica servo-padrone l’uomo “nero” spicca la paura, il terrore di ritrovarsi di fronte ad un individuo portatore di caratteristiche totalmente diverse dalle nostre, con il quale non sappiamo come rapportarci e della cui reazione abbiamo timore.
Accade così che invece di intraprendere la strada della conoscenza dell’altro utilizziamo definizioni e immagini già in uso nella società, che hanno come vantaggio la limitazione dell’impatto con l’alterità che ci troviamo innanzi, ma come svantaggio la perpetrazione di pregiudizi infondati che impediscono di fare esperienza della diversità. Si tratta delle rappresentazioni sociali, costrutti che trapassano dalla società ai singoli individui, i quali grazie ad esse hanno sempre la sensazione di vivere in un mondo sicuro e sotto controllo, perché ogni qual volta fa ingresso un elemento di rottura, subito lo travestono per ricondurlo alle categorie già note. Oltre alle rappresentazioni sociali, le opinioni, che non sono altro che verità forti e schiette travestite con l’abito del giudizio soggettivo, e il senso comune, che è il bagaglio che ciascuno di noi si porta appresso di tutte le convinzioni, le abitudini, le regole che considera ovvie, costituiscono una barriera che ci impedisce di esperire l’altro, perché lo cristallizzano in un’immagine stereotipata che non trova riscontro nella realtà.
La figura che oggi meglio incarna l’alterità è l’immigrato, che differisce da noi per cultura, per religione, per colore della pelle, per posizione sociale e la sfida della nostra epoca consiste, secondo Siebert, nel mutare lo sguardo, infatti sostiene:
“Per affrontare la problematica del riconoscimento, indubbiamente, occorre innanzitutto partire da una ristrutturazione, da un ri-posizionamento dello sguardo. Anziché limitarci a scambiare la figura dell’immigrato – che rappresenta una parte – per il tutto, dobbiamo fare lo sforzo di conoscere l’emigrato, la parte nascosta e vitale.”
Solamente quando abbandoniamo le categorie cui siamo soliti ricorrere nella classificazione dell’alterità e andiamo fisicamente incontro all’altro riusciamo a rompere la barriera che si frappone tra il “noi” e il “loro”, e finalmente guardiamo colui che ci stava di fronte, lo riconosciamo ed egli fa altrettanto con noi.
Valentina Colzera
[immagini tratte da Google Immagini]