E’ passato solo un anno e qualche giorno da che è morta la mia gatta, Eva. Eva perché era nera, sinuosa e furba come la compagna di Diabolik; in effetti a modo suo anche lei ne ha combinate di belle, però poi abbiamo scoperto che era anche capace di immensa dolcezza: per esempio, ti bastava dire “Eva!” e guardarla negli occhioni verdi che lei cominciava a fusare.
Sono circa 370 giorni dalla sua morte così inaspettata e già certi ricordi di lei cominciano a sfumare. Ha vissuto con noi per nove cortissimi mesi e ormai ho il terrore costante che, col passare degli anni e delle decadi, finirò col dimenticarmi di aver vissuto del tempo con lei. Per lei sono stata un’amica per tutta la vita, mentre lei rischia di diventare, un giorno, solo una minuscola sbiadita parentesi della mia. Ne ho il terrore perché mi sembra, in un certo senso, un insulto alla sua memoria: abbiamo passato lunghissime giornate a casa da sole, io lei e l’altra gatta, ho vissuto tanti piccoli momenti, esasperanti, dolci e divertenti, che non avrei mai voluto dimenticare – quei momenti che mentre li vivi dici “Non potrei mai dimenticarmi di questo istante” – e invece, alla fine, se ne vanno quasi tutti.
«La vita fugge e non s’arresta un’ora»¹. Da quando ho analizzato questo componimento di Petrarca al liceo non sono più stata capace di cancellare quell’idea, l’idea che la vita stia fuggendo e che ciascuno di noi la stia faticosamente inseguendo, minuto dopo minuto, anno dopo anno. I ricordi sono solo la moneta di scambio dell’implacabile tempo che passa. Non si può nemmeno dire che sia uno scambio equo, dato che questi ricordi (molti di essi, la maggior parte) hanno una scadenza: si depositano silenziosi in anfratti dove non li puoi raggiungere, finché non accade qualcosa, inaspettatamente, casualmente, che diventa come l’odore dei limoni per Montale, apre un’altra dimensione, spalanca certe conche negli abissi della memoria e il ricordo affiora, torna alla mente, «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza»², un momento di ricchezza che è svanito. Una malinconia (non tristezza, malinconia) che resta. Sono tuttavia occasioni troppo rare perché io possa darmi pace, troppe sono le cose che voglio ricordare.
Per fortuna, un po’ come per i limoni, i ricordi sembrano depositarsi dentro a degli oggetti: quasi fossero frammenti della nostra anima che richiudiamo nelle cose più svariate, concrete o astratte che siano, affinché li custodiscano per noi. Per esempio, per me c’è anche il caffè al ginseng: l’ho sperimentato il primo giorno in cui ho vissuto a Milano perché la mia coinquilina ne aveva sviluppato una sorta di dipendenza, e da allora un po’ anche io; adesso che non viviamo più assieme lo bevo molto meno, ma quando lo faccio penso a lei e al “ging” del dopopranzo o del “ok è tardi abbiamo sonno e dobbiamo ancora finire di lavorare al progetto ma ce la faremo”. Allo stesso modo, L’ombelico del mondo di Jovanotti adesso mi fa ridere mentre penso ai balletti scemi che facevo (con imbarazzo e divertimento) insieme agli altri volontari all’Expo, oppure c’è quel profumo di Lancome che credo assocerò sempre a mia madre, e la “furia buia” del film Dragon trainer alla mia piccola Eva pelosa. Ciascuno di noi ne ha un buon numero, se ci pensiamo bene. Certo, sarà sempre il nostro cervello che metterà in moto il processo di rimembranza, ma a pensarci è un po’ come avere dei nostri ricordi che camminano nel mondo: a volte li incontriamo e tac!, un pensiero risorge, ci fa stare bene e ci fa stare male. Purtroppo resta sempre da decidere se anche quelli abbiano una scadenza, se, cioè, l’oggetto in cui depositiamo il ricordo ad un certo punto non decida di espellerlo, disperdendolo definitivamente.
Del resto, con quale criterio il cervello dovrebbe scegliere i ricordi da eliminare e quelli da mantenere? Non è affatto detto che scelga in base alla loro importanza, altrimenti non dovrei cantare ancora a memoria Barbie girl degli Aqua. Pensiamo anche soltanto a tutto quello che abbiamo imparato del mondo quando eravamo piccoli! Ho da poco conosciuto la figlia di mia cugina, che ha solo cinque mesi ma sta seduta e ha due occhioni azzurri spalancati sul mondo; perché ad osservarla mi rendevo conto con profonda sorpresa che non si tratta solo di imparare a camminare e a parlare, si tratta di tutto quanto, di imparare a mettere in sintonia il nostro corpo con il mondo, cioè con i suoi suoni odori gusti volti superfici rumori colori… Tutte cose che oggi diamo per scontate (spesso niente ci sembra essere abbastanza interessante), e questo proprio perché non ci ricordiamo la magia dello scoprire il mondo pazzesco in cui siamo. Non ricordare il passato a volte ci tradisce nel modo in cui viviamo il nostro presente.
Dicono che in genere usiamo solo una piccola parte del nostro cervello. Questo potrebbe voler dire che i ricordi in realtà dentro ci sono tutti senza che noi ce ne accorgiamo. Magari sono come nodi nel lanoso gomitolo del tempo di Bergson: sono lì tutti in fila, ma è difficile per noi sgranare il rosario ed arrivare al punto giusto, lì dove si trova il ricordo che stiamo inseguendo. E’ dura anche perché il gomitolo, anche se non sembra a vederlo così appallottolato, è molto lungo – di fatto hai una vita che ti passa davanti al contrario – e all’improvviso pensi che ti sembra l’anno scorso che hai fatto la tal cosa e invece sono passati anni. E pure troppi. Allora te ne rendi proprio conto: la vita scappa a gambe levate, e non sta lì ad aspettarti. A volte addirittura ti punisce per la tua pigrizia e non ti lascia dietro nessuna traccia del suo passaggio – o, almeno, non in superficie.
«Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità».³
Giorgia Favero
[Immagine tratta da Google Immagini]
NOTE:
1. Francesco Petrarca, Componimento CCLXXII, in “Canzoniere”;
2. Eugenio Montale, I limoni, in “Ossi di seppia”;
3. Ibidem.