Si potrebbe dire che figure come Art Spiegelman (con Maus) e Marjane Satrapi (con Persepolis) hanno fatto a livello globale ciò che Gipi e Zerocalcare hanno fatto su scala nostrana: provare al largo pubblico che il fumetto non è necessariamente soltanto un medium frivolo o infantile, perché può essere utilizzato anche per raccontare storie importanti, generazionali e impegnate – cose da adulti.
Eppure, c’è ancora chi per esempio coglieva l’occasione della scomparsa di Stan Lee per sostenere in modo piuttosto tranciante che se gli USA si trovavano al governo Trump la responsabilità era del fumetto. Più precisamente, il problema sarebbe che gli statunitensi avevano finito per prendere i fumetti – non solo quelli sui supereroi – troppo sul serio, ovvero come un mezzo di espressione e comunicazione non più confinato alla fase infantile-adolescenziale dell’esistenza. Quando si tratta di passare alla vita adulta, fatta di conoscenza e razionalità, lì il tempo del fumetto finisce: se perseveri nella sciocca ricreazione, poi non lamentarti che ci sia Trump al governo, perché sei corresponsabile a prescindere. La storia è vecchia per noi italiani: “guardi la tv?! allora beccati Berlusconi al governo!”. Perché quando il visibile prevale sull’intellegibile, i processi di comprensione, astrazione e concettualizzazione verrebbero soffocati e la regressione verso l’infanzia dell’umanità sarebbe inesorabilmente avviata1.
Con le immagini, è sempre la stessa solfa: se va bene, esse sono relegate alla serie B dei processi cognitivi – sin dai tempi di Platone. È proprio per la connivenza con l’immagine e il suo potere distraente che il fumetto andrebbe bene al più per raccontare storie intrattenenti, ma non certo per esporre pensieri sofisticati e veicolare approfondimenti razionali. Anzi, il fumetto è pure più subdolo della tv: ti fa credere di ospitare parole come un libro qualunque, mentre in realtà tratta pure quelle come immagini, facendo sì che anche font, tratto, grandezza, spessore, forma, collocazione, ecc. delle lettere siano portatori di significato. Perciò, sarebbe un’idea decisamente comica creare concetti e discutere idee tramite comics: vorrai mica che un accademico faccia ricerca lavorando anche a un graphic essay intitolato “Come fare concetti con le immagini, anziché dedicarsi anima e corpo a monografie e paper standard”?! (Ogni riferimento all’autore di queste righe non è per nulla casuale).
C’è un però: i detrattori del fumetto non capiscono che nei supposti vizi del fumetto si annidano anche le sue virtù. Il fumetto è infatti un medium misto o ibrido dove parole e immagini convivono non alla stregua di marito e moglie separati in casa, bensì come amanti complici che collaborano intensamente alla costruzione del significato2. In questo modo, nelle pagine di un fumetto le idee possono non solo essere messe sequenzialmente in fila come in un testo vecchio stile, supportando una scrittura/lettura complessa e stratificata3, ma anche – a differenza di quest’ultimo – farsi multimodali e comunicare tanto la dimensione incorporea quanto quella incarnata dei concetti, coniugando astratto e concreto, intelligibile e sensibile: il sogno dei filosofi di ogni tempo!
Calvino notava che il rapporto tra filosofia e letteratura è «una lotta», con i filosofi intenti a ridurre «la varietà dell’esistente» a una scacchiera astratta di relazioni priva di «spessore carnoso» e gli scrittori occupati a dare alle pedine «un nome, una forma determinata, un insieme d’attributi reali» e sostituire lo spazio di gioco con «campi di battaglia polverosi o mari in burrasca». Al contempo, entrambe saprebbero che «la materia prima delle proprie costruzioni è la stessa di quella dell’altra: parole»: riconoscere questo diventava il presupposto per puntare a un equilibrio magico tra «la leggerezza fantomatica delle idee e la pesantezza del mondo». Un equilibrio fatto in quel caso di sole parole appunto, ma il fumetto insegna che le nostre costruzioni simboliche possono avvalersi anche della materia prima delle immagini – soprattutto se l’obiettivo è ricordarsi della carne. In questo modo, non solo la letteratura può aprirsi agli orizzonti della graphic novel, cosa ormai già quasi assodata, ma anche la filosofia può esplorare gli spazi del graphic essay.
Perché lo spettro dell’immagine si aggira ormai per ogni territorio, compreso quello filosofico: i filosofi hanno solo scritto il mondo in modi diversi; si tratta però di visualizzarlo. Filosofi-fumettisti di tutto il mondo, unitevi!
NOTE
1. Cfr. G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma-Bari, 1998.
2. Cfr. G. Pezzano, D1git4l-m3nte. Antropologia filosofica e umanità digitale, Milano, 2024, pp. 203-226.
3. Cfr. S. Calabrese, V. Conti, Elogio della Visual Literacy, in “Enthymema”, n. XXVII, 2021, pp. 90-113.
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