Jean-Jacques Rousseau è certamente noto ai più come colui che, andando contro la corrente dominante del suo secolo, influenzò notevolmente gli ideali anti-assolutistici e di eguaglianza della Rivoluzione francese. È dunque ricordato principalmente per essersi occupato di temi politici, ma Rousseau è un filosofo molto più sfaccettato di quanto si possa credere: egli non solo è considerato un precursore degli ideali illuministici, ma anche di quelli romantici. Scrive infatti pagine molto belle e interessanti riguardanti la questione del riconoscimento, inteso come l’insieme delle questioni antropologiche, psicologiche, sociali ed etiche che scaturiscono dalla dipendenza dell’uomo dalla considerazione altrui.
Questa tematica non era mai stata oggetto di un’indagine tanto approfondita, seppure fosse già stata trattata da Hegel attraverso l’elaborazione della dialettica.
Rousseau associava al concetto di “dipendenza dell’uomo dalla considerazione altrui” il termine amour-propre, ossia una passione in grado di sovrapporre all’autentica identità dell’io, quella derivata dall’incontro con le alterità, dalla considerazione che queste si fanno di noi e dunque dall’inevitabile interdipendenza tra coscienze. L’amour-propre si costituisce, quindi, nell’individuo attraverso una lotta tra ciò che egli è realmente e il modo in cui viene giudicato dagli altri.
Sappiamo bene quanto sia importante per gli esseri umani sentirsi riconosciuti dai propri simili e dalla società in cui vivono: si pensi a quante persone, oggi come ieri, si presentano agli altri identificandosi con il proprio lavoro, tralasciando l’aspetto più autentico del loro essere.
Tuttavia Rousseau afferma che oltre all’amour-propre, definito come sentimento relativo e artificiale che spinge gli individui a farsi del male e a sopraffarsi reciprocamente, esista anche un sentimento naturale che porta ogni uomo a vegliare sulla propria conservazione e che rappresenta la fonte delle passioni umane, chiamato amour de soi. Quest’ultimo si mantiene però in una dimensione solipsistica, manca cioè totalmente della consapevolezza dell’esistenza delle alterità ed è un sentimento primitivo ed autoreferenziale.
È evidente come la società in cui viveva Rousseau non si differenziasse molto da quella in cui viviamo oggi, che ci vuole sempre in un determinato modo e ci sta facendo perdere sempre più gran parte di quel sentimento primitivo e immediato che è l’amour de soi, auto-ingannandoci di essere autenticamente ciò che la società moderna ci impone di essere. È anche vero, però, che non è possibile vivere nel totale solipsismo, senza gli altri e senza essere soggetti a quell’inevitabile giudizio che prima Rousseau e poi Sartre, identificheranno nella metafora dello sguardo come emblema dell’intersoggettività.
Jean-Paul Sartre riprende infatti le posizioni rousseauniane nel Novecento e parla della funzione reificante dello sguardo altrui come qualcosa che trasforma metaforicamente il nostro vero essere, in un oggetto tra altri oggetti: il primo sguardo che l’individuo porge ai suoi simili lo porterà da quel momento in poi a paragonarsi inevitabilmente a loro e ad iniziare a volere ciò che quelle alterità vogliono, facendo venir meno i suoi bisogni più autentici che caratterizzano la sua coscienza.
Si crea dunque, all’interno della dimensione intersoggettiva, un sistema di bisogni artificiale che scaturisce dall’opinione altrui e che porta alle imposizioni culturali del “si deve fare” e “si deve pensare”, a cui i singoli si attaccano per spirito di autoconservazione, ma che intaccano la loro autenticità.
La soluzione prospettata inizialmente da Rousseau è interessante poiché sembrerebbe in contraddizione con quella che è stata la sua vita, a cavallo tra la sua estrema introversione e l’esigenza di vedersi riconosciuto dagli altri: egli invita gli uomini ad essere se stessi, anche se questo comporta una lotta interiore nei confronti dell’amour-propre, ma l’unico modo per lottare è sottrarsi fisicamente allo sguardo altrui, ossia rinchiudersi nella totale solitudine.
Ma assodato che i rapporti intersoggettivi siano fondamentali per gli esseri umani, il filosofo ginevrino ci prospetta anche un’alternativa alla solitudine: quella di trasformare la dipendenza dall’opinione degli altri, il riconoscimento appunto, stimolandolo con premi e distinzioni di merito, affinché possa tramutarsi in una forza aggregante e non più disgregante e competitiva e quindi in amore nei confronti dell’altro.
È quindi importante per l’essere umano fare “buon uso” dell’opinione altrui, la quale non deve andare a sostituire la sua vera identità, ma integrare il suo essere per far sì che possa costruirsi un’immagine di sé più completa in quanto abitante dei rapporti sociali: bisogna quindi essere in grado di affrontare gli sguardi altrui, conoscendo profondamente se stessi, senza dare eccessiva importanza alle opinioni, specie se queste sono volte a ledere la nostra autenticità, valutando ciò che può, invece, arricchire la nostra immagine all’interno della società.
Federica Parisi
Federica Parisi, classe 1991, ha conseguito la laurea in Filosofia e si è specializzata in Scienze filosofiche, presso l’Università degli studi Roma Tre. I suoi principali campi d’interesse riguardano la Filosofia morale e la Filosofia delle religioni. È inoltre una grande appassionata d’arte e letteratura.
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