Una società che punta con decisione e serietà alla parità di genere è una società più felice; siccome il femminismo (o almeno una sua larga parte, considerando le tante correnti da cui è animato) ha come obiettivo la parità di genere, ne deriva che una società femminista è una società più felice. Può sembrarvi un’affermazione molto forte e molto di parte, specie se scritta da una persona femminista, ma ci sono degli studi che sembrerebbero confermarlo ufficialmente. Lo spiega molto bene l’economista Azzurra Rinaldi citando una ricerca del 2019 della London School of Economics, secondo la quale ci sono evidenze empiriche del fatto che «i cittadini dei Paesi in cui vige una maggiore equità di genere sono in media più felici dei cittadini dei Paesi afflitti da una maggiore discriminazione»; e aggiunge che «tutte le statistiche lo confermano: l’uguaglianza di genere esercita un effetto ampio e positivo sulla soddisfazione delle persone rispetto alla propria vita». Non solo: «la ricerca è utilissima anche per smontare alcune critiche alla gender equality, secondo cui un maggiore rispetto e, in generale, un avanzamento dei diritti delle donne potrebbero andare a discapito degli uomini» perché «quando aumenta l’uguaglianza di genere, non aumenta solo il livello di soddisfazione delle donne, aumenta anche quello degli uomini» (in A. Rinaldi, Le signore non parlano di soldi, pp. 202-03).
Ecco allora che una politica che ostacola la parità di genere è una politica che mina il benessere della società tutta, uomini e donne indistintamente, e lo fa in moltissimi modi: dal taglio delle risorse ai centri antiviolenza, dal mettere antiabortisti nei consultori, fino anche a una proposta di legge come quella appena avanzata dalla Lega – e prontamente ritirata –, che intendeva vietare (e punire con multe salate) negli atti pubblici “il genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”1. Vi sembrerà che l’ultima non sia poi così rilevante rispetto al taglio dei fondi ai centri antiviolenza, ma in un’ottica complessa e sistemica lo è: un po’ come la portata di un lago è determinata da tutti i suoi immissari, grandi o piccoli che siano. Lo dimostra il fatto che in certi casi, laddove i fondi sono stati stanziati, non se ne fa la domanda auspicata, come avvenuto per il famoso Bonus mamme2. In tutti gli ambiti, fare è importante ma comunicare lo è altrettanto, considerando però la comunicazione non soltanto come mera trasmissione di una informazione ma intendendo anche in senso più ampio la sua capacità di costruzione di mondi, ampliamento delle prospettive, correzione d’immaginari, che riguardano anche la lingua, la rappresentazione visiva, la toponomastica e così via. Del resto, è ormai risaputo che parola e realtà si plasmino a vicenda. Ne ho già parlato altrove (qui) e non mi dilungo oltre sulla questione del femminile delle professioni, ricordo solo che è un tema avanzato già nel 1986-87 con Il sessismo nella lingua, curato da Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Commissione Nazionale per la Parità, in cui ci si raccomanda di «suggerire alternative compatibili con il sistema della lingua per evitare alcune forme sessiste» allo scopo di «dare visibilità linguistica alle donne» (in V. Gheno, Femminili singolari, pp. 33-34), perché, semplicemente, queste donne esistono. Esistono sindache, assessore, architette, poliziotte, mediche e così via, con buona pace degli esponenti della Lega che, evidentemente, su questo tema risultano completamente anacronistici.
Non è un tema fine a sé stesso, questo: far sapere che esistono, queste donne, normalizzare la loro presenza, incoraggia le bambine e le giovani donne ad ambire ad esserlo altrettanto. Tra i tanti “divari” (gap in inglese) che separano donne e uomini, infatti, c’è anche il cosiddetto gender dream gap, cioè il fatto di non dare alle bambine nemmeno la possibilità di sognare di essere qualcosa, se non si fa sapere loro che quel qualcosa esiste ed è quindi possibile. Eppure, tanto per fare un esempio, anche se si dice che le donne sono meno razionali e meno abili con i numeri, più emotive e quindi più inadatte a posizioni apicali e decisionali, esistono donne nei consigli di amministrazione, e addirittura diversi studi ci dimostrano che «le aziende con una maggiore diversità di genere nel consiglio di amministrazione sono più redditizie e crescono di più». Quanto? Secondo «l’ultimo report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che ha chiesto il parere di oltre 13mila imprese in settanta Paesi del mondo […] tre quarti delle aziende attente alla diversity hanno […] indicato una crescita [di fatturato] compresa tra il 10 e il 15%» (in A. Rinaldi, op.cit., pp. 204-07). È evidente che il benessere di una società non si misura solo dal fatturato delle aziende che la popolano, ma di un certo tipo di aziende sì: quelle che hanno a cuore il benessere dei loro dipendenti e che vogliono avere ricadute positive nei propri territori. E se questo può passare anche dal normalizzare (dentro e fuori i documenti ufficiali) qualche “a” in più, perché ostacolare il cambiamento già in corso? Il femminismo – e quindi il benessere della società – passano pure da questa parte.
NOTE:
1.La notizia qui.
2.Delle circa 800mila aventi diritto (che già sono molte, molte meno rispetto al numero delle mamme italiane), lo hanno richiesto per ora il 40% (dati INPS). Le motivazioni possono essere diverse (difficoltà burocratiche, taglio del cuneo fiscale ecc), ma una delle quali è sicuramente la mancanza di una adeguata comunicazione.