Ormai è come se tutti noi, ogni giorno, vivessimo a cavallo tra due mondi. Il primo è il mondo reale, quello che ci circonda, fatto di oggetti e persone con cui interagiamo nell’ambito di regole e comportamenti convenzionalmente stabiliti per garantire una convivenza sociale quanto più pacifica possibile. Il secondo è quello virtuale al quale accediamo in continuazione per mezzo di diversi dispositivi, nel quale vive la nostra versione immateriale che interagisce con altre e diverse versioni immateriali di esseri umani, nell’ambito di uno spazio in cui, almeno apparentemente, tutto è concesso: anche gli insulti, le discriminazioni e le diffamazioni, perché, in fondo, a chi si fa del male? Non si ledono i sentimenti di un essere umano in carne e ossa ma si attacca una entità inconsistente, un ammasso di lettere e numeri, un nickname. Questo ovviamente, come spiegherò più avanti, non corrisponde al vero.
Tra i due mondi (o, volendoli considerare come parti di un unico mondo, diremmo tra le due dimensioni) non si tratta, in questa sede, di aggettivare come più “importante” quello reale e meno importante quello virtuale; anche perché non sarebbe corretto, visti gli innumerevoli campi di applicazione della virtualità soprattutto nei casi più gravi di disabilità, ove l’accesso a un mondo virtuale è l’unica finestra sul mondo per quell’essere umano. Ammettiamo che quello in cui viviamo sia il mondo reale e non una simulazione o un sogno (ci apriremmo a un altro vasto argomento). Il mondo (o la dimensione) virtuale, quello creato ex novo dagli uomini per connettere il globo, trasformando gli umani in avatar e facendoli interagire via social network attraverso messaggi e video-chiamate o facendoli gareggiare in videogiochi multiplayer, è una zona in cui spesso si assiste a un blackout dell’imperativo morale categorico di Kantiana memoria.
Questa riflessione vuole concentrarsi, seppur brevemente e non in maniera esaustiva, sulla nostra percezione dell’umanità nella virtualità e, di conseguenza, sul rispetto delle regole (morali prima e giuridiche poi) nel mondo virtuale.
E infatti, se nel mondo reale la vocina dentro di noi dice “Agisci così! (e non così)”, se quella vocina dell’imperativo morale –quantomeno nei confronti della maggioranza di noi – dice che non si deve offendere o discriminare o diffamare il prossimo (e la maggioranza presta ascolto a quella vocina o per paura delle conseguenze legali o perché è composta da persone morali), nel mondo virtuale qualcosa evidentemente va storto. Nella dimensione virtuale, quasi come nella saga cinematografica di Matrix, sembrano esserci altre regole. Un’altra fisica, un’altra forza di gravità. In quella dimensione, alla quale accediamo con un click o con un tap, possiamo offendere pesantemente un’altra persona, denigrarla, discriminarla, fingerci qualcun altro per estorcere informazioni o per truffare qualcuno. Si ha l’impressione che la tastiera sia uno scudo dietro cui nasconderci, una maschera. Quando non si guarda negli occhi il destinatario delle nostre parole, quando non entrano in contatto due anime attraverso lo sguardo, si dà libero sfogo alla parte peggiore di noi, a quella più algida, crudele, disumana. Ma perché ci si comporta così? Forse perché si ha l’impressione che nella dimensione virtuale sia tutto concesso, senza conseguenze nella quotidianità. Ma non è così. Il più delle volte, le azioni commesse nella dimensione virtuale hanno delle conseguenze (anche serie) nel mondo reale. Per un insulto sputato (si legga digitato) nel mondo virtuale, si può finire dentro un Tribunale del mondo reale, quello dove un Giudice, alla fine, scriverà una sentenza di condanna. Questo accade perché il mondo virtuale come zona franca dell’imperativo categorico morale è solo un’illusione.
Nasce la figura degli odiatori, gli haters. Tempo addietro, il programma televisivo “Le iene”, ha realizzato alcuni servizi in cui dei personaggi pubblici incontravano i loro odiatori, coloro che su internet li avevano ricoperti di insulti. Il risultato? Quelle stesse persone, nel mondo reale, quello in cui non si interagisce per mezzo di una tastiera, non erano in grado di ripetere quanto fatto dietro uno schermo ma, anzi, si sono scusate e vergognate di quello che avevano scritto. Possibile che non si abbia ancora consapevolezza del fatto che il mondo virtuale è governato dalle stesse regole di quello reale? Non si parla (solo) di regole normative, di leggi, ma di regole naturali, umane: in entrambi i mondi interagiamo con persone che in quanto tali hanno dei sentimenti e hanno tutto il diritto di non essere lese nei loro diritti.
Andrea Cavalera
Nasce a Gallipoli (Le) il 12 settembre 1992. È un avvocato del Foro di Lecce, fin da piccolo appassionato di Cinema, fumetti e letteratura. Dal 2009 a oggi ha diretto e co-diretto cortometraggi e videoclip musicali.
Nel 2022 partecipa al concorso in magistratura, si iscrive alla Facoltà di Filosofia presso l’Università del Salento ed esordisce in libreria con Lo stalking: cos’è e come difendersi (Capponi Editore).
NOTE: [Photo credit Barefoot Communication via Unsplah]