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Il paziente in età prenatale

Negli ultimi decenni gli studi incentrati sulla biologia della vita prenatale hanno portato ad una approfondita conoscenza dello sviluppo e della fisiologia fetale contribuendo ad una significativa e rapida evoluzione dell’ostetricia sia a livello concettuale che operativo. Le acquisizioni scientifiche, rese possibili dallo sviluppo di strumentazioni per l’osservazione e il prelievo di materiale embrio-fetale, hanno portato alla nascita di una vera e propria medicina prenatale dedicata, appunto, allo studio e all’assistenza del feto.

L’evoluzione di questi processi conoscitivo-tecnologici si è concretizzata nello sviluppo di quella branca della medicina fetale chiamata diagnosi prenatale e che opera attraverso una serie indagini strumentali e di laboratorio per monitorare lo stato di salute del feto e riscontrare patologie per lo più di natura genetica e/o mal formativa.

Le indagini attualmente utilizzate per la diagnosi prenatale in gravidanza si suddividono in test di screening, indicati per accertare l’entità del rischio di patologie cromosomiche fetali e di conseguenza per valutare la necessità di ulteriori analisi e test diagnostici, ovvero esami specifici che attraverso apposite strumentazioni mirano al riconoscimento di una determinata patologia e/o malformazione.

Dal punto di vista tecnico-strumentale l’invasività della procedura diagnostica è conseguenza diretta della necessità di entrare fisicamente nel compartimento corporeo materno per esplorare, estrarre e campionare materiale biologico.

Dietro alla non invasività, all’invasività, al carattere più o meno inoffensivo e all’apparente neutralità morale delle tecniche diagnostiche di prassi ostetrica si nasconde una delle più complesse questioni legate alle indagini prenatali; infatti, la medicina fetale che negli ultimi quarant’anni ha amplificato enormemente le sue capacità diagnostiche non è riuscita a far si che ad esse corrispondesse un altrettanto rapido sviluppo di trattamenti terapeutici, soprattutto per i difetti di carattere cromosomico e genetico.

Laddove è possibile intervenire la terapia fetale consente la correzione di alcune patologie feta­li attraverso differenti modalità: l’approccio indiretto, consiste nella somministrazione di farmaci o di sostanze alla madre e il loro passaggio transplacentare al feto, la modalità diretta, invasiva ed ecoguidata, si avvale dell’approccio terapeutico a livello dei quattro compartimenti endouterini (amniotico, vascolare, peritoneale-pleurico e urinario) inoltre, può essere utilizzata la chirurgia fetale aperta o la chirurgia in fetoscopia, la prima interviene chirurgicamente sul difetto strutturale del feto incidendo l’utero senza estrarre il nascituro in maniera completa, la seconda attraverso l’uso di un’ottica rigida nella cavità amniotica opera nella zona anatomica da correggere chirurgicamente.

Le indagini prenatali possono evidenziare l’assenza di patologie, patologie curabili o parzialmente curabili, patologie non curabili o una diagnosi di feto terminale, ovvero una condizione fetale per difetto anatomico-strutturale o relativamente alla regolazione genica o del numero e struttura dei cromosomi è incompatibile con la vita.

Da una diagnosi di patologia incompatibile con la vita può dipendere la decisione di programmare la morte del feto terminale (Legge 194/78 aborto terapeutico) o la prosecuzione della gravidanza per accompagnare il proprio figlio verso la morte naturale passando così dall’ I cure (io ti curo) all’I care (io mi prendo cura di te) mettendo in atto se necessario tutta una serie di interventi di comfort care perché anche se non è possibile curare per guarire, è comunque un dovere salvaguardare la qualità della vita, per breve che sia.

La vera particolarità del rapporto tra medico e feto consiste nel prendersi cura contemporaneamente di due soggetti distinti: la madre e il feto. La raggiungibilità del feto esclusivamente attraverso il corpo materno solleva delicati problemi in ordine alla liceità e praticabilità degli interventi in termini di valutazione congiunta dei rischi e benefici soprattutto in vista di interventi di carattere sperimentale.

Lo iato esistente tra possibilità diagnostiche e possibilità terapeutiche, potrebbe indurre a diversi atteggiamenti relativamente alla medicina fetale, originati da differenti e divergenti impostazioni etiche. Da un lato, infatti, potrebbe essere rifiutata la pratica della diagnosi prenatale quale possibile premessa ad intraprendere l’aborto, dall’altro la ricerca scientifica e la fatica terapeutica potrebbero essere escluse a propri, sottovalutate, affrontate senza entusiasmo, in rapporto alla complessità ed impervietà dei problemi a fronte della relativa semplicità dell’interruzione di gravidanza. Gli aspetti finora illustrati sollevano inevitabilmente una riflessione bioetica di ordine metodologico e operativo in relazione alle possibilità che si dischiudono di fronte ai progressi conoscitivi e applicativi della medicina fetale.

Nonostante esistano opinioni divergenti all’interno della professione medica e psicologica relativamente alla frequenza e alla gravità degli effetti mentali derivanti dall’aborto volontario e sebbene non tutte le interruzioni di gravidanza abbiano delle ripercussioni a livello psicologico ne aumentano sensibilmente i rischi e l’incidenza, sarebbe importante per la donna e/o la coppia un beneficiare di counseling multidisciplinare, un processo di accompagnamento professionale e multidisciplinare finalizzato non solo alla comprensione degli aspetti strettamente clinico-scientifici delle condizioni morbose fetali, ma anche a gestire percorsi decisionali densi di implicazioni etiche, psicologiche ed emotive al fine di ottenere informazioni complete e affidabili necessarie per valutare le diverse opportunità e confrontarsi con le possibili conseguenze che deriverebbero da ciascuna scelta.

 Silvia Pennisi

[immagine tratta da Google Immagini ]

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