La cura e il dialogo caratterizzano l’ambito empirico della professione medica fin dai tempi di Ippocrate. Il concetto di cura, in particolare, «non implica […] la fabbricazione, o la produzione, di qualcosa, anche se in rapporto al malato si parla di produrre nuovamente, nel senso di ristabilire»¹, come già ho cercato di proporre nell’articolo precedente. Parallelamente, il concetto di dialogo rinvia a quel comune terreno d’intesa che medico² e paziente hanno il bisogno di tracciare: in questo senso, la lingua è tale solo quando è dialogo, cioè quando domanda e risposta (e viceversa) si alternano: «[…] La lingua è una sedimentazione di esperienza e di saggezza che già parla attraverso le parole»³. Proprio nel dialogo, e solo in esso, la lingua può sviluppare tutte le sue potenzialità: «[…] nell’ambito della medicina, il dialogo […] è già una forma di assistenza e prosegue nel trattamento successivo che deve portare alla guarigione»⁴.
«[…] In futuro la nostra esistenza dipenderà in modo decisivo da questa attenzione dedicata a noi stessi, senza la quale non possiamo far fronte alle mutate condizioni di vita di un mondo tecnologico, e non apprendiamo neppure a rianimare le forze che ci permettono di conservare e di ritrovare l’equilibrio, ossia la giusta misura, ciò che è adeguato a me e ad ogni singolo individuo»⁵.
Ciò che, infatti, tanto la scienza quanto la sua “oggettivante” applicazione tecnica ha originato è un sapere rivolto al (pre-)dominio, «producendo delle situazioni-limite, che infine si rivoltano contro la natura danneggiandola»⁶, natura che sola può rievocare, quasi in vortice di verità e armonia, la salute.
Accanto a questo sapere e ad una simile capacità pratica, mediante i quali il mondo ci appare un oggetto da dominare, un campo che oppone resistenza, l’universo ci offre un altro aspetto, che nella filosofia del nostro secolo è definito secondo un’espressione introdotta da Husserl, “il mondo della vita”. «[…] È compito di tutti noi, in quanto uomini, trovare la giusta via in questo mondo della vita ed accettare i nostri condizionamenti reciproci. Nel caso del medico questa strada comporta il duplice obbligo di unificare la sua competenza altamente specializzata e il suo far parte del mondo della vita»⁷.
Già il riferimento mitologico alla figura della dea Cura⁸, suggerisce un intimo legame tra l’uomo e questa dimensione, la quale indica preoccupazione, ansia ma anche (e, a mio avviso, soprattutto) condivisione, premura e attenzione. Ciò è fortemente legato alla differenza tra il “to cure” e il “to care“, tra avviare una terapia da una parte e il processo di attesa, ascolto, che conduce alla guarigione⁹, dall’altra: si tratta di un percorso, in quest’ultimo caso, di assistenza, affine al concetto di alimentare, nutrire (“to nurse“). Il termine “cura” può ricondurre anche a cuore (cor) e alla radice ri-cordare, in naturale rapporto con la dimensione della memoria, che la narrazione stimola e valorizza10. Una ricerca della salute, per una sua fenomenologia, può trovare qui uno snodo centrale per la sua comprensione.
«Perché lo studio delle narrazioni? Nell’incontro diagnostico, la descrizione è la forma fenomenica in cui il paziente sperimenta la salute; incoraggia l’empatia e promuove la comprensione tra il medico e il paziente; permette la costruzione degli indizi e delle categorie analitiche utili al processo terapeutico; suggerisce l’uso di un metodo olistico. Nella ricerca, la medicina narrativa aiuta a mettere a punto un’agenda centrata sui pazienti a generare nuove ipotesi»11.
Le storie possono rappresentare uno strumento di guarigione in quanto le relative narrazioni offrono la possibilità di garantire un utile spunto per contestualizzare dati clinici e soprattutto i bisogni del paziente, consentendo a quest’ultimo di decifrare il proprio vissuto con gli occhi dell’altro.
La narrazione, in ambito medico12, sembra incentivare e promuovere una migliore adesione alle terapie, permettendo inoltre al medico di verificare se effettivamente il paziente segue i suoi consigli. A loro volta, spiega Rita Charon13: «I medici che riflettono possono identificare e interpretare le proprie risposte emotive, possono dare un senso al loro viaggio quotidiano, e quindi riescono ad affrontare anche la fatica di entrare in empatia con persone molto sofferenti o morenti»14. Questa consapevolezza ha portato al fiorire, negli Usa alla fine degli anni ’90, di seminari di letteratura e gruppi di lettura riservati ai medici, anche nell’ottica di far fronte al burnout, ovvero allo spegnersi e all’esaurirsi della spinta ideale e psicologica a portare avanti il proprio lavoro che può colpire proprio i medici più umanamente disposti all’ascolto.
Raccontare se stessi è una delle chiavi del cosiddetto empowerment del paziente, quel rafforzamento di autonomia decisionale che consente di coltivare anche la propria resilienza, la capacità di far fronte alle avversità.
Riccardo Liguori
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NOTE:
1. Ivi, pag. 136.
2. Il medico ideale, secondo il filosofo Hans-Georg Gadamer, riprende l’immagine e il significato dell’espressione “guaritore ferito” cioè di quell’individuo il cui compito è quello di scoprire, analizzare ed accettare il paziente che è in lui. In virtù di ciò il terapeuta ha la possibilità di entrare in un canale comunicativo di fertile intesa e adeguata empatia con il paziente il cui impegno, a sua volta, è quello di potenziare le proprie abilità di analisi interiore, le sole a potergli permettere di elaborare e superare lo squilibrio che il vortice della malattia porta con sé.
3. Dove si nasconde la salute, pag. 136.
4. Ibidem.
5. Ibidem.
6. Ivi, pag. 112.
7. Ibidem.
8. A questa figura mitica è dedicato uno dei 277 raccolti scritti dall’autore latino Igino (I° d.C), raccolti sotto il titolo di Fabulae.
9. Il riferimento, in questo caso, è all’opera In a different voice- Phychological Theory and Women’s Development di C. Gilligan.
10. Questo suggerisce di porre attenzione al concetto di una cura nell’ambito di una libertà legata alla responsabilità (grazie anche ai contributi proposti da Paul Ricoeur e Hans Jonas) soprattutto etica.
11. Brian Hurwitz e Trisha Greenhalgh. Per poter consultare la citazione scrivo il link che rimanda alla pagina web corrispondente (in inglese) http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1114541/
12. La NBM, o medicina basata sui racconti, si ispira nella scelta della sigla alla Evidence Based Medicine (EBM), o medicina basata sulle prove, movimento e corrente di pensiero che, dagli anni 70′ in poi, cerca di promuovere cure e interventi basati esclusivamente su dati, analisi e studi scientifici che ne comprovino efficacia e utilità: un approccio che alcuni medici e molti pazienti hanno trovato troppo arido in quanto prescinde da tutti gli aspetti emotivi che definiscono un determinato paziente e che possono influire, in modo più o meno determinante, sullo stato nonché sul decorso della malattia di quest’ultimo.
13. Fondatrice della medicina narrativa, inaugura il primo programma universitario di Medicina Narrativa nel 2000, alla Columbia University.
14. Rita Charon, Narrative Medicina. A Model for Empathy, Reflection, Profession, and Trust, in “The Patient-Physician Relationship”, University of Illinois-Urbana Champaign, June 7 2007, pp. 1897-1899.