Definire univocamente la bellezza può essere un’impresa persa già in partenza. Forse ha ragione Jane Eyre1 quando dice che la bellezza è negli occhi di chi guarda, perché come sostiene anche Baumgarten, padre dell’estetica, essa nasce dall’esperienza sensoriale che si instaura tra il soggetto e le cose. È però vero che ognuno ha una propria idea di bellezza alla quale, anche inconsciamente, vorrebbe tendere. E facendo qui riferimento alla bellezza fisica, diventa interessante chiedersi quanto la percezione del bello sia influenzata dai canoni estetici che la società propone. Ancora di più in una società in cui il nostro rapporto con la bellezza viene condizionato anche da immagini artificiali.
L’intelligenza artificiale (IA) è un risultato scientifico e tecnologico rivoluzionario perché figlia del progresso delle competenze umane, ma è utile chiedersi se non necessario limitarne il potere d’applicazione perché ci sta portando in una condizione di inferiorità operazionale e alienazione esistenziale. A differenza dell’essere umano, essa non è un essere sociale, naturale appunto, e per questa ragione deve darci una mano ma non sostituire le nostre mani, perché «la mano regge. La mano traccia dei segni, perché probabilmente l’uomo è un segno […] Ogni opera della mano poggia sul pensiero. Per questa ragione il pensiero è la più semplice e quindi la più difficile, delle opere della mano dell’uomo» (M Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, 1996, pp. 108-109). Stiamo forse delegando troppo il nostro modo di ragionare a un sistema che impara velocemente a conoscerci e che gioca a replicare esponenzialmente copie della nostra realtà, come nel caso della bellezza.
Quello che l’IA generativa sta facendo con la rappresentazione di contenuti estetici è comunicare un ideale di bellezza frutto di un’estetica stereotipata che si è radicalizzata nella nostra società. L’IA mostra bias di conformismo e di standardizzazione estetica e per dare un esempio basta guardare l’immagine dell’influencer Aitana Lòpez che è stata generata con lo scopo di condizionare i comportamenti e le scelte di persone reali con la complicità del «sistema dei media nel suo complesso, che riveste un ruolo fondamentale nel processo di costruzione sociale del corpo» (S. Capecchi, E. Ruspini, Media, corpi, sessualità, Franco Angeli, 2009, p. 37). Non solo i media ma anche la cultura «interviene sul corpo al fine di modellarlo e renderlo conforme alla società ed al rispetto delle sue regole e delle sue norme: in ogni società e in tutte le epoche, il corpo viene “addestrato” sin dall’infanzia affinché si trasformi in un complesso di valori e credenze socialmente accettate» (M. Marzano, La filosofia del corpo, Il Melangolo, 2010, p. 55). Ma quale corpo è vittima di questa logica? Specialmente quello femminile che, istituito a oggetto di desiderio sessuale e strumento di mercificazione, impatta sull’accettazione di sé.
La bellezza esteriore è aperta alle possibilità di essere modificata chirurgicamente: è infatti possibile rimuovere i difetti percepiti quando diventano inaccettabili, cioè quando diventa stressante il giudizio che ci diamo e che ci viene dato. Ma allora qual è il problema di permettere all’IA la riproduzione di immagini esteticamente performanti, se abbiamo già riferimenti di una bellezza plastica in stile Barbie? Forse, l’IA fa esplodere questa dinamica che ha già troppo terreno fertile nella nostra società. Se guardiamo i volti e i corpi generati dall’IA pensiamo che possono essere imitati perché simulano una bellezza a cui è possibile avvicinarsi, poco importa che sia irreale.
Proponendo esempi di donne ad alto impatto estetico, l’IA sta incrinando ancor di più il rapporto con la bellezza naturale in termini di autostima e autenticità. Infatti – come riportato nel report The Real State of Beauty, condotto dall’azienda Dove – 2 donne su 3 sentono la pressione di essere belle. Inoltre, 1 donna su 3 sente il bisogno di cambiare il proprio aspetto dopo essere stata esposta a immagini generate con intelligenza artificiale. Il marchio Dove si è impegnato a non usare l’IA per modificare l’aspetto delle donne. Nella sua nuova campagna #KeepBeautyReal il messaggio è chiaro: entro il 2025 gli algoritmi generativi genereranno il 90% dei contenuti online. Per questo, ha dichiarato che «per aiutare a stabilire i nuovi canoni digitali che rappresentino la Bellezza Autentica, abbiamo creato il Real Beauty Prompt Playbook – una guida ai prompt AI che contiene suggerimenti semplici su come creare immagini rappresentative della Bellezza Autentica utilizzando i software di AI generativa più diffusi»2.
I sistemi che simulano la nostra realtà raggiungono livelli altissimi di computazione e performance, senza che queste abbiano un impatto sulla loro esistenza di agenti informatici, poiché non hanno consapevolezza degli effetti del loro agire su se stessi e soprattutto su di noi. Ad oggi, infatti, non ci sono prove che l’IA sia consapevole della nostra esistenza. Un po’ come la natura matrigna leopardiana, può quindi risultare indifferente alle nostre sorti, ingannarci nelle aspettative e ostacolare la nostra ricerca della felicità. Ma questo solo perché noi proiettiamo sull’AI un significato che, forse, è mal riposto. Cosa serve, allora, per mettere in salvo la bellezza così che essa possa davvero salvare il mondo?
NOTE
1. Protagonista dell’omonimo romanzo di Charlotte Brontë.
2. Testo tratto dalla Campagna Dove appena appena menzionata.
[Photo credit Roksolana Zasiadko via Unsplash]