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Il self-talk: ne vogliamo parlare?

Baby Reindeer, recente serie tv Netflix, racconta una brutta storia di ossessione e molestie. Questa black dramedy ha posto l’accento sul vivere una situazione di difficoltà e sul parlarne con chi di dovere. La scritta che compare alla fine dell’episodio conclusivo invita a visitare il sito www.wannatalkaboutit.com, proponendo diversi temi quali abusi, salute mentale e tendenze suicide. Non è la prima serie tv a farlo e non sarà neanche l’ultima. Perché il bisogno di chiedere aiuto per far fronte a delle difficoltà è un tema sempre attuale. Con un ragionamento controintuitivo si potrebbe azzardare una domanda retorica di questo tipo: “Non è ovvio e scontato rivolgersi a qualcuno se non si riesce a venirne a capo?”. La verità è che non sempre siamo in grado di riconoscere ed esprimere le nostre emozioni – termometro delle difficoltà – anzi, spesso evitiamo proprio di parlarne. Il motivo? Secondo una studiosa tedesca, non saper riconoscere internamente le proprie emozioni deriverebbe anche dal potere persuasivo dei mass media, in grado di veicolare un determinato tipo di pensiero a scapito di un altro. Vista l’introduzione, il cerchio sembrerebbe chiudersi. I mass media sono la causa; loro stessi si adoperano per fare prevenzione. Non esattamente. 

Elisabeth Noelle-Neumann, sociologa tedesca fondatrice dell’Institut für Demoskopie Allensbach, ha sviluppato una teoria negli anni ‘70 che analizza la forza suggestiva dei mezzi di comunicazione, denominata spirale del silenzio. In essa si teorizza come la distribuzione dell’opinione pubblica sia in grado di influenzare la volontà di un singolo individuo a esprimere le proprie opinioni e le proprie emozioni. L’analisi di Noelle-Neumann parte dal pensiero di fondo che i mass media – specialmente la televisione – siano in grado di enfatizzare alcuni sentimenti a scapito di altri, spegnendo di fatto tutto ciò che è discordante ed in inferiorità numerica. Incentivare gli individui ad esporsi e condividere i loro pareri solo se in maggioranza ne è, per forza di cose, una diretta conseguenza. Dal punto di vista della psicologia dell’individuo questa forbice di possibilità è devastante: preferire il conformismo emotivo al poter esternare quelle che sono le reali emozioni esperienziate è la ricetta per un mondo post-apocalittico senza un briciolo di intelligenza emotiva e di spirito critico alcuno. Ma il self-talk, in tutto questo?

Ritenuto essere una voce interiore, un soliloquio in background, che ci accompagna durante la nostra giornata, il self-talk combina pensieri e credenze, consci e inconsci. Positivo o negativo, d’aiuto o autolesionista, questo interprete cerebrale delle nostre esperienze quotidiane può essere sia benefico che agire in maniera diametralmente opposta. In ogni caso, è un dialogo interiore in grado di aiutare a sapere riconoscere internamente le emozioni fin dalla tenera età. Ecco, la spirale del silenzio eserciterebbe un’influenza sul self-talk, con una drastica riduzione dell’ascolto delle esigenze emotive più profonde, favorendo una diseducazione di queste stesse emozioni negate. Per evitare l’isolamento e la divergenza – per esempio online – si finirebbe quindi per prestare sempre meno ascolto al nostro grillo parlante interiore. Incoraggiamento, autocelebrazione o ulteriore abbattimento: il self-talk monta, smonta ma soprattutto insegna ed educa. Davvero i mass media contribuiscono così al nostro analfabetismo emotivo? Anche, ma non sono gli unici.

Nell’articolo di Moy P., Domke D. e Stamm K. del 2001, The spiral of silence and public opinion on affirmative action, l’accento viene posto invece sulle innegabili differenze culturali tra le diverse società. Le persone, sostengono gli studiosi, temono di più l’isolamento dalle piccole cerchie sociali che dalla popolazione in generale. Micro quindi, non macro. Quello che viene realmente messo in atto è evitare l’isolamento da famiglia e amici stretti e non il conformismo all’opinione pubblica. Ben vengano i Baby Reindeer e l’invito a non tacere, a chiedere aiuto, a far sentire la propria voce. Ma per nutrire e incoraggiare il self-talk serve, ancora una volta, un determinato tipo di educazione, che potrebbe essere anche diverso da cultura a cultura.

Nei paesi scandinavi e di lingua tedesca, per esempio, si incoraggiano le opinioni del singolo tramite un focus puntato sull’autorealizzazione e le conquiste individuali. Libertà, cultura del fare, percepirsi in base a ciò che si è e non sul ruolo che si occupa nella società: le società individualiste fanno proprio questo, costruendo l’impalcatura emotiva dei suoi membri grazie alle priorità di tipo personale. L’esatto opposto accade nelle culture collettiviste, dove l’opinione pubblica è forte numericamente ma debole qualitativamente, per sostenere quelle che sono le esigenze del gruppo nella sua totalità. America latina, mediterraneo e oriente: nelle loro comunità gli individui sono fedeli al gruppo di appartenenza, il noi è decisamente più importante dell’io ed il benessere collettivo è il vero focus. L’educazione emotiva dei loro membri passa anche attraverso questo filtro. 

Qualunque sia la cultura di riferimento, essa deve partire dalle basi, anche scolastiche, dal riconoscimento di ogni singola reazione e dai messaggi che esse sono in grado di veicolare, educando i piccoli di oggi a essere grandi e consapevoli domani.

 

NOTE
[Photocredit Simedblack via Pixabay]

Milo Salso

Milo Salso

Acqua, odore dei libri, Sehnsucht

Sono estremamente curioso ed infatti leggo, ascolto e guardo tutto quello che mi capita, cercando anche di muovermi il più possibile, ovviamente entro i limiti che la vita impone. Sono laureato in psicologia sociale, del lavoro e della comunicazione e, dal 2015, vivo in Austria. Qui, tra uscite in bicicletta e qualche mostra d’arte, tento […]

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