C’è un brevissimo scambio di battute nel film “Vento di Passioni” del 1994 di cui vorrei avvalermi per introdurre e discutere un tema, quello della formazione e dell’istruzione, sempre più cruciale a molte questioni irrisolte della nostra contemporaneità.
La scena cinematografica è quella che vede il Colonnello Ludlow (Anthony Hopkins) e la futura nuora Susannah (Julia Ormond) condividere la loro cena in cucina con la famiglia incaricata dei servizi domestici della casa. Durante la conversazione a tavola, il Colonnello, accorgendosi delle lacune educative della tredicenne Isabel (Sekwan Auger), offre ai genitori la sua disponibilità a occuparsi personalmente della sua istruzione. Il padre Decker (Paul Desmond) si rivolge quindi alla moglie (Tantoo Cardinal) per un suo parere, e subito dopo, con franchezza e senza fronzoli, pone al Colonnello la seguente domanda: «E che ci farà con tutta questa istruzione?» Al ché il Colonnello Ludlow, in un misto di sorpresa e ovvietà, gli risponde: «Avrà una vita più ricca e più piena!»
Questa risposta rapida e concisa sembra però lasciare un po’ perplesso il padre di Isabel. La sua esclamazione, in pronta battuta, sulla peculiarità d’origine della figlia sembra infatti esprimere il dubbio che l’educazione offerta dal Colonnello possa essere, in qualche modo, inadatta o inappropriata rispetto alle realistiche opportunità future di Isabel.
Il film è ambientato nel Nord-America durante gli anni dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quindi all’incirca poco più che cent’anni fa, ma la domanda del padre di Isabel supera la contingenza temporale cinematografica, qualificandosi piuttosto come un interrogativo tra i più comuni. Chi di noi non si è mai chiesto almeno una volta il senso e il motivo dell’utilità pratica dello studiare?
Ora, se è del tutto normale investire il proprio impegno di studio in previsione di una più o meno specifica occupazione professionale è altrettanto vero che la selezione formativa e conoscitiva operata dalla nostra scelta rischia di circoscrivere l’importanza dello studio esclusivamente a una funzione preparatoria e per questo tacitamente a termine.
Ecco che allora la risposta del Colonnello Ludlow ci offre l’occasione di riflettere più in profondità sul senso dello studio. La sua affermazione infatti esprime la convinzione che l’educazione culturale in senso lato, abbia un valore a prescindere da qualsiasi posizione o possibile contesto sociale. Quello studio infatti permetterà a Isabel di vivere «una vita più ricca e più piena» indipendentemente da un suo riconoscimento generale o una sua remunerazione materiale poiché l’importanza dell’impegno e dell’esercizio allo studio sta innanzitutto nel rafforzamento della propria interiorità e personalità. Infatti, attraverso esso, noi impariamo a interrogare il nostro pensiero, ad assumere momentaneamente la prospettiva di altri e ad acquisire, per questo, una maggiore capacità e volontà espressiva.
Queste considerazioni lineari, apparentemente prive di implicazioni pratiche, sfidano, in realtà, almeno due nostre impostazioni culturali piuttosto assodate.
La prima è quella che tende a identificare lo sviluppo della persona con la competenza di una professionalità specifica e contingente nonostante non ci siano evidenze empiriche di una coincidenza al dettaglio tra le funzioni gerarchiche sociali e la diversificazione di ciò che chiamiamo “talento”. Se, dal punto di vista pratico e realistico, sembra più che ottimale una selezione conoscitiva di tipo funzionale, è di certo discutibile l’idea, a essa troppo spesso implicita, di uno sviluppo della nostra persona coincidente e mai abbastanza eccedente la competenza acquisita di una mansione generica o specializzata. Ciò a maggior ragione oggi che le nostre attività occupazionali tendono a subire un dinamismo capace di renderle obsolete.
La seconda, tanto antica quanto imbarazzante, è quella che accorda al sapere l’attributo del potere e che, parimenti, accetta senza riserve la necessità organizzativa delle proprie strutture economiche come criterio elettivo e selettivo del proprio personale patrimonio conoscitivo, determinando un rapporto inverso, e quasi sempre definitivo, tra volume conoscitivo e status sociale. Situazione particolarmente paradossale oggi che la funzionalità dei nostri compiti sembra esonerarci da osservazioni e riflessioni di più ampio respiro.
Per queste ragioni lo studio non è da intendersi come una attività meramente scolastica finalizzata al superamento di un esame e all’ottenimento di un titolo specifico ma come una nostra attività fondamentale da coltivare con libero interesse e ordinarietà. La sua importanza sta nel sostenere la nostra voce che si caratterizza imparando a legittimare l’esigenza di espressività che spunta e muove dalla singolarità della propria vita.
Riuscirà la cultura del nostro secolo a riconoscere il valore dello studio, a tradurlo in pratiche quotidiane e a fiorire grazie all’uso democratico e alla costruzione partecipata della conoscenza?
[Photo credit Alexander Grey via Unsplah]