Questo articolo è una dichiarazione d’intenti, una serie di considerazioni preliminari che vorrebbero introdurne una nuova, futura, serie; che dovrebbero delineare un perimetro, condiviso da più autori, in cui poter ospitare esperienze, narrazioni, riflessioni circa la musica. Il lettore, io spero, avrà la bontà di intendere queste righe come un’apertura e la pazienza di attendere l’accordatura di tutti gli strumenti coinvolti in questa nostra esperienza. Probabilmente il lettore si chiederà perché si voglia dar vita ad una nuova rubrica sulla musica; perché le si sia dato il nome In chiave di violino; cosa abbia a che fare tutto questo con la filosofia.
Ero seduto alla mia scrivania, quasi due anni fa, alle prese con un testo su cui, in quei giorni, tornavo a più riprese, senza comprenderlo fino in fondo; mi pareva di comprenderne esattamente il dettato ma percepivo una sorta di retrogusto d’incomprensione che mi lasciava insoddisfatto, mi infastidiva, mi impediva di procedere con lo studio: era il Teeteto di Platone; in particolare, poche parole di Socrate mi creavano grandi difficoltà: «Si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il thaumàzein. Non vi è altro inizio della filosofia se non questo […].»1
Non comprendevo cosa fosse il thaumàzein, di che esperienza di trattasse, come fosse possibile tradurla nella mia lingua madre; era forse paura quella nota dolente che sentivo2?
Nota dolente: qualcosa iniziava a frullarmi per la testa. Chiusi il libro, spensi le luci; avviai la riproduzione musicale casuale sul mio pc e mi lasciai appena scivolare dalla sedia, con la posizione scomposta, gli occhi serrati e le mani giunte: non riesco ad ascoltar musica mentre faccio altro e, mentre ascolto musica, sono incapace di fare attività particolarmente impegnative.
Fa-La: crome che pungolano, girano appena, mettono sugli attenti; Sol: una note dolce e un taglio che interviene lento sulla quiete e prepara all’incalzante e terribile esperienza del dubbio, del discorso argomentativo, della filosofia. Ecco: in una manciata di battute – che pure avevo già ascoltato, senza provare coinvolgimento estetico – riposava quel thauma per cui non trovavo parola3; io ne avevo appena avuto un accenno ascoltando il Concerto per violino in Re minore, op. 47 di Jean Sibelius.
Ripensando a questa esperienza, alcuni giorni fa, ho creduto opportuno riavviare una riflessione che prendesse le mosse dalla magica concretezza della musica: In chiave di violino è dunque uno spazio in cui riflettere insieme, autori e lettori e amici e note.
Dal canto mio, ad oggi ho ascoltato innumerevoli volte le note di quel concerto per violino di Sibelius, provando ogni volta la medesima sensazione, scoprendo a più riprese nuove sfumature4; ma ancora non ho una parola che sappia parlarmi del thauma.
Con voi, lettori, vorrei dunque iniziare a navigare, in ricerca.
Emanuele Lepore
NOTE
1Platone, Teeteto, 155d, in Platone, Tutte le opere, Newton Compton, Roma, 1997.
2Che il thàuma, comunemente tradotto come meraviglia, non sia privo di dolore è stato detto, tempo fa, da Emanuele Severino, di cui si può leggere – a tal proposito- Il giogo, Adelphi, Milano, 1989.
3Per questo scelgo di mantenere la parola nella sua lingua originale; pur sapendo che tradurla forse faciliterebbe il lettore, ritengo che sia qui necessario tenere l’espressione del greco antico.
4Forse le sfumature più nuove sono quelle da sempre sepolte nel nostro profondo.