Abbiamo incontrato Annibale Salsa a fine luglio durante una sua breve sosta a Trento, prima che ripartisse verso una nuova tappa alpina, e gli abbiamo chiesto di condividere con noi alcuni pensieri sul paesaggio e sulla montagna da un punto di vista filosofico.
Profondo conoscitore e instancabile camminatore delle terre alte e delle vallate alpine, Annibale Salsa è uno dei massimi esperti della cultura e dell’ambiente montano. Alla base delle sue riflessioni si trova un pensiero ermeneutico e fenomenologico, all’interno di un approccio multidisciplinare al paesaggio che spazia dalla filosofia alla storia e dall’antropologia allo studio delle società delle Alpi. Ha insegnato Antropologia filosofica all’Università di Genova ed è stato Presidente del CAI (Club Alpino Italiano). È Presidente del Comitato scientifico di tsm|step Scuola per il Governo del Territorio e del Paesaggio di Trento e componente della Fondazione Dolomiti-UNESCO. Ha recentemente pubblicato il breve saggio I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia (Donzelli Editore 2019).
Di fronte a un paesaggio alpino si è tentati spesso, come nel dipinto Viandante sul mare di nebbia di Friedrich (1818), di rimanere assorti in contemplazione, in una posizione sopraelevata, seguendo l’ondulazione dei prati fino alle foreste che, risalendo i pendii, cedono il posto alle cime rocciose. Tuttavia, questo atteggiamento contemplativo, che tende a rimirare la natura, alla stregua di un dipinto all’interno di una cornice, non avviene in modo neutro e ingenuo, ma è frutto di una visione estetica, che si è diffusa nella cultura occidentale, legata a un modo particolare di intendere il rapporto tra uomo e ambiente naturale.
Il nostro colloquio ha avuto inizio rilevando che il termine paesaggio ha una genesi storica ben precisa, connessa allo sviluppo della disciplina estetica tra ‘700 e ‘800. Annibale Salsa, quale influenza ha esercitato l’estetica del bello e la tendenza a ridurre l’estetico all’artistico sul nostro modo di intendere e vedere il paesaggio, in particolare quello alpino?
Il filosofo tedesco Gottlieb Baumgarten, esponente di spicco del pensiero settecentesco, ha impresso una svolta epocale alla nozione di estetica. Muovendo infatti dalla sua riflessione, la parola estetica incomincerà a riferirsi alla nozione di “bello”, modificando sensibilmente il significato d’uso del termine greco aísthēsis (αἴσθησις), il quale indicava la “sensazione” tout court, a prescindere dal giudizio di valore. La tradizione successiva, da Immanuel Kant e dalla sua opera Critica del Giudizio al neo-idealismo italiano, che ha in Benedetto Croce uno dei suoi principali esponenti, condizionerà tutta la cultura e si riverserà anche nella legislazione italiana attraverso la Legge Bottai del 1939 in materia di paesaggio che, non a caso, viene interpretato in senso artistico-monumentale. Per quanto riguarda l’ambito del paesaggio alpino, la rappresentazione iconografica in senso kantiano (“bello e sublime”) riceverà apporti sensibili attraverso la pittura e la poesia del Romanticismo ottocentesco.
Questa interpretazione in senso artistico-monumentale, che separa soggetto attivo e oggetto passivo, ha come effetto rilevante la tendenza a idealizzare il paesaggio, come avviene per l’immagine di una cartolina, e a trascurare gli aspetti del vissuto e dell’interazione tra uomo e ambiente. Come si supera un modello che vede l’uomo come colui che vive con “intorno” la natura e che “guarda” frontalmente il paesaggio? Come oltrepassare l’idea di un paesaggio da un lato e la percezione di un soggetto dall’altro?
Nella tradizione filosofica occidentale, da Platone a Cartesio, la relazione soggetto-oggetto è stata impostata dualisticamente ossia, oltre che in senso gnoseologico, anche in senso ontologico. Pertanto la distinzione non viene posta soltanto come diversificazione di funzioni (osservatore/osservato), ma, soprattutto, sulla base di una separazione sostanziale ipostatizzata. Il superamento della distinzione ontologicosostanzialistica è possibile mediante l’attivazione di una relazione intenzionale noetico-noematica (secondo l’insegnamento della fenomenologia di Edmund Husserl), ricorrendo altresì, in chiave psicologico-fenomenologica, all’empatia (in tedesco Einfühlung), ovvero a quella immedesimazione empatica in cui la separazione soggetto-oggetto si annulla. Per questo parlo di paesaggio quale spazio-di-vita, recuperando la nozione husserliana di “mondo-della-vita” (Lebenswelt).
Questa tua espressione mi sembra cruciale, perché richiama una accezione di paesaggio inclusiva delle persone che lo vivono, dell’ambiente naturale e delle sedimentazioni storico-culturali. Che cosa intendi con l’espressione “il paesaggio è spazio di vita”? Quale significato assume questa espressione, ad esempio, per l’ambiente montano?
Come accennavo prima, riprendo la nozione fenomenologica di “mondo-della-vita”, che, da Husserl (in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale del 1936) a Merleau-Ponty (in Fenomenologia della Percezione del 1945), ha individuato nell’a-priori materiale del mondo della vita il Welt – il mondo naturale, sociale, personale – in cui l’uomo è immerso in forma originaria (quindi, spazio-di-vita). L’ambiente montano, pertanto, non può essere lo stesso, se chi lo vive è un montanaro o un cittadino, in quanto cambia la relazione empatica del vissuto di esperienza. Anche questa è una distinzione funzionale più che ontologica, in quanto, se il cittadino vive la quotidianità del mondo della vita in una “full immersion” con il paesaggio e il mondo dell’alpe, modifica le sue percezioni e le sue rappresentazioni e cambia il paradigma mental-culturale passando dalla “montagna ideale” alla “montagna reale”.
Prendendo spunto dal tuo ultimo lavoro I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia, anche il binomio natura/cultura, nel senso di distinzione tra paesaggio naturale e paesaggio culturale, abbisogna di una chiarificazione…
La distinzione tra paesaggio naturale e paesaggio culturale, più che una distinzione è una re-interpretazione o, se vuoi, una correzione. La parola paesaggio richiama etimologicamente la parola paese, dunque consorzio umano, comunità, costruzione socio-culturale. Ritengo più corretta, sia semanticamente che epistemologicamente, la distinzione fra ambiente naturale e paesaggio culturale.
Se il paesaggio è sempre culturale, siamo nello stesso tempo produttori e prodotti del paesaggio. Appare quindi fondamentale saper mettere in campo azioni che mirino a promuovere e sviluppare la sua conoscenza come componente essenziale dell’identità e come riferimento al senso del vivere i luoghi. Che ruolo può avere l’educazione nel sapere interpretare il paesaggio?
L’educazione al paesaggio mi porta a riflettere sul significato etimologico di educazione come operazione maieutica dell’e-ducere, ossia dell’uscire fuori dalla dimensione dell’ovvio (di ciò che ci si para di fronte ob viam senza venir problematizzato), per incontrare la dimensione dell’autentico. Interpretare il paesaggio significa dunque, fenomenologicamente, compiere un’analisi radicale delle ovvietà, per superare gli stereotipi della cosiddetta “fallacia naturalistica”, aporia di cui è imbevuta una certa vulgata ambientalistico-naturalistica (selvatichezza e deserto verde…).
Seguendo questa tua ultima riflessione, aggiungerei che, per intendere in modo corretto il paesaggio, un’analisi radicale delle apparenti ovvietà e degli stereotipi ideologici non può che essere basata su un dialogo costante tra i diversi saperi teorici e pratici. A questo proposito ti pongo la domanda: quale potrebbe essere il ruolo della filosofia all’interno di un approccio interdisciplinare al paesaggio?
L’approccio interdisciplinare al paesaggio è fondamentale e ineludibile, ma è anche impegnativo e contrastato, in quanto incrina rendite di posizione e monopoli accademici iper-settorialistici. La filosofia, in tal senso, dovrebbe riprendere la sua insuperabile funzione di un “sapere dell’Intero”, capace, attraverso una trasversalità rigorosamente epistemologica, di contrastare le derive scientistiche e tecnicistiche che hanno abdicato ad ogni forma di criticità della scienza e della tecnica (sottoporre a critica, dal greco krino κρίνω, giudico). Ogni “dato” è, in ultima analisi, un qualcosa di “preso” attraverso l’atto dell’interpretare e del rappresentare. Compito della filosofia è proprio quello di fornire una cornice ai saperi particolari e di raccordarli nell’ottica di un sapere universale.
Grazie, Annibale, per questo illuminante colloquio sul paesaggio!
Umberto Anesi
[Photo credit Pixabay]