A Vittorio Veneto, sotto il caldo sole di fine giugno, si sono svolte le tre giornate del Festival Biblico, ricche di incontri con ospiti ed esibizioni di artisti, tra concerti e performance. I principali temi di confronto sono stati la fratellanza e l’amicizia, affrontati sotto diversi punti di vista per favorire il pensiero critico e trattati con esperti di vari settori, dalla filosofia all’economia.
A tale proposito abbiamo incontrato Roberta de Monticelli, filosofa, professore emerito dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano e autrice di numerose opere tra cui La questione morale (Cortina Raffaello, 2010) e Al di qua del bene e del male (Einaudi Editore 2015). Ospite alla prima giornata del Festival, nella nostra intervista abbiamo discusso il significato di identità individuale e libero arbitrio, il rapporto tra filosofia e modernità e molto altro ancora.
Un tema complicato eppure di estrema attualità è quello del libero arbitrio, che ha avuto modo di approfondire in modo particolare nel suo saggio La novità di ognuno. Persona e libertà (Garzanti 2012). Di libertà si è parlato moltissimo anche in quest’ultimo periodo, in cui una pandemia ha indotto una ridefinizione della mobilità e dell’agire quotidiano di milioni di persone nel mondo. Se le nostre scelte contribuiscono a costruire la nostra identità, come si inserisce in questo contesto la tutela dell’altro o in generale del bene pubblico?
Bisogna anzitutto fare una piccola distinzione fra il libero arbitrio – ovvero la questione della libertà del volere tradizionalmente intesa – e la questione della libertà dell’agire più in generale, che è quella a cui si riferisce la seconda parte della domanda.
Quando si parla della pandemia e della perdita di libertà, si parla dell’essere soggetti a una volontà altra dalla nostra (che poi sia, in termini democratici, la volontà del popolo e non un volere arbitrario poco importa, perché è comunque un volere altro). Io non mi sono autodeterminato a chiudermi in casa, o meglio: mi sono soltanto autodeterminato a chiudermi in casa se sono d’accordo, ma se per caso non sono d’accordo questo lo vivo come una privazione di libertà.
Questa è la questione di base, ovvero la questione della libertà in senso politico: la politica è sempre il luogo del confronto delle volontà e quindi della soggezione o, viceversa, della non soggezione della mia volontà alla volontà altrui.
Però qual è il nesso di questa dimensione politica con quella del libero arbitrio che invece configura una questione fondamentalmente “metafisica”? Cioè la seconda si chiede se il volere umano in quanto tale, a prescindere dal fatto che il mio volere sia o no soggetto al volere di un altro, sia libero o no. Tale questione, nella tradizione, è tipicamente affrontata in maniera tale da contrapporre un’idea deterministica a un’idea libertaria. La seconda dice che “io sono libero nel senso che il mio volere è libero e non è determinato”, ovvero devono essere soddisfatte due condizioni: 1) sono io effettivamente la fonte delle mie azioni; 2) ho qualche alternativa: avrei potuto se faccio A, non farlo se faccio B.
Se esse non vengono soddisfatte, allora si è deterministi; Spinoza diceva: «dando alla pietra la possibilità di pensare, la pietra lanciata penserà che è lei stessa che si muove per sua volontà». Così, essendo noi probabilmente, in qualche modo, la risultante di tutte le complesse dinamiche biologiche, psicologiche, sociali che lavorano in noi, in questo modo possiamo essere illusi nel nostro sentirci soggetti liberi. Questa è una posizione molto condivisa dall’attuale ricerca neurobiologica.
Da sempre la filosofia sembra un sapere sulla via del tramonto, salvo poi costituirsi come uno dei riferimenti principali per orientarsi nel proprio tempo. In che stato di salute versa oggi la filosofia secondo lei, specialmente nel nostro Paese?
Dunque, oggi la situazione è veramente molto variegata perché, ad esempio, non è ancora andata in pensione tutta la mia generazione, e quindi si allungano i tempi accademici e abbiamo a che fare, a livello d’insegnamento, con stili e modi dominati da una tradizione che era ancora eminentemente storica, se non storicistica, che trascina con sé grandi illusioni. Insomma, una tradizione sostanzialmente hegeliana, modellata sul neoidealismo italiano, che ormai si sta estinguendo perché sono troppe quelle che possiamo definire pressioni derivanti dalla realtà; queste fanno saltare i quadri di quella che è la base di tutto il nostro sistema educativo. Certo, esso ha avuto i suoi meriti ed è alla ricerca di nuovi metodi e di nuove basi anche didattiche che possano farlo progredire, ma ciò sta rendendo molto difficile il confronto con altre realtà, per esempio quella anglosassone, perché non sono più facilmente distinguibili gli indirizzi. Oggi penso che chiunque abbia capito che senza un po’ di argomentazione una grande idea non vale molto; senza la capacità, appunto, di avvicinare anche l’interlocutore alle basi che si posseggono per sostenere una tesi. La Verità che cala dalla bocca del Vate o dalla grande porta del Vero non convince nessuno; d’altra parte, molta filosofia “anglosassone” (ben al di là della filosofia del linguaggio, della filosofia della mente ecc.) ha prodotto fioriture straordinarie proprio in termini di filosofia delle norme, filosofia politica, filosofia morale, ma anche riflessione sulla storia, e quindi oggi l’interconnessione è molto più profonda.
Ecco, qui devo dire che sarebbe più utile uno sguardo più fresco del mio che ha tutti gli svantaggi della relativa vetustà di chi vi parla. Per esempio io, fin quasi alla fine, ho insegnato nella aula contigua a quella in cui ancora insegnava Emanuele Severino: io ritengo che – con tutto il rispetto per il personaggio e pur non derivando egli tipicamente dalla tradizione storicista di cui parlavamo – quel mondo ha tutti i caratteri di una completa assenza di orecchio per le domande del reale e in particolare degli umani. È una forma di filosofia ancora una volta chiusa in una sua torre, in questo caso direi veramente liturgica, con tutti i crismi e i riti che contraddistinguono una Chiesa.
Credo che sia veramente salutare riflettere su questa questione: demolendo i pilastri del socratismo – e cioè fondamentalmente da un lato l’universalismo etico e politico, dall’altro la persona e il libero arbitrio – si ottiene una filosofia della macchinazione universale in cui i soggetti sono quelle famose potenze di cui parlavamo prima: la Tecnica, il Neoliberismo (parola più generica, e più discosta, lontana da quello che succede in questo paese dove non si riesce a progredire se non si hanno conoscenze personali e dove semmai vige un’economia consortile e non liberale). La questione è che io vedo la filosofia veramente al tramonto, a meno che non consideriamo una via di salvezza: una semplice, umile e modesta cultura del rispetto per ciò che vi è qui ed ora, per il tempo in cui siamo ma anche per le domande che vengono sia dalle cose che dalle persone. Quindi un’umiltà che diventa anche virtù filosofica accanto alla meraviglia; umiltà vuol dire anche prestare attenzione a quello che accade nel mondo delle scienze, smettendo di far finta che non abbiano importanza per il nostro ambito.
Tanti sono i temi di attualità e le questioni con cui quotidianamente ci confrontiamo sui quali la filosofia potrebbe intervenire in modo più deciso all’interno del dibattito pubblico. Quale questione vede lei filosoficamente prioritaria oggi?
Credo che il punto focale debba essere dedicato a ciò con cui abbiamo aperto questa intervista, alla prima domanda: qual è l’intreccio tra logica ed etica? Parlare di questo significa riflettere su ciò che io chiamo assiologia, ovvero la teoria dei valori ma anche e soprattutto la teoria dell’esperienza dei valori in tutte le sfere degli infiniti beni e mali (come dicevamo prima dalla tazza del caffè mattutino fino all’impegno politico che può appassionare un’esistenza, ai dilemmi morali, ed eventualmente, per chi ha questa via, all’esperienza religiosa o comunque a tutto quello che ha a che fare con valori epistemici e cioè il Vero). Questo significa dedicarsi soprattutto a tutto ciò che è alla base di avventura e ricerca di conoscenza e di chiarezza e di definitezza, alla ricerca di basi esperienziali o comunque di giustificazioni: tutto ciò ha a che vedere sostanzialmente con l’intreccio tra etica e logica.
Detto in breve, questo rapporto lega da un lato tutti i valori epistemici (logica) e dall’altro il repositorio di tutte le questioni di valore (etica). Ciò che una nuova ricerca filosofica può mettere al centro è il valore e la natura dei valori, tenendo ben presente la necessità di partire, ancora una volta, dall’esperienza e non da qualcosa di tradizionale o ereditario, di puramente concettuale.
Luca Mauceri, Giorgia Favero
[Photo credit: Elisa Cesca]