«In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpresi in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti». Ovvero – potremmo dire – nel mondo della natura, dell’indistinto e del caotico, si apre uno spiraglio, una presenza umana che sembra promettere ordine e razionalità. Ma questo luogo elude tutte le nostre aspettative, non si capisce nemmeno se sia un castello decaduto, o magari una modesta osteria che col tempo si è nobilitata. E soprattutto, a causa di una sconosciuta magia, i viandanti che si radunano hanno perso la più umana delle facoltà, quella della parola. Vorrebbero comunicare e raccontare tutti la loro storia, ma non possono. L’unica possibilità gli è offerta da un mazzo di tarocchi: a turno, disporranno su un gran tavolo alcune carte a loro scelta; le misteriose figure degli arcani e le forme dei semi alluderanno a una storia, che gli altri dovranno decifrare.
Questo semplice spunto è la regola di fondo che regge Il castello dei destini incrociati (1973) di Italo Calvino (1923-1985). Il termine “regola” – certo insolito per un’opera letteraria – sembra del tutto appropriato in questo caso: in quegli anni infatti Calvino si era avvicinato al gruppo francese Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle, ossia “officina di letteratura potenziale”), nel quale scrittori e matematici si proponevano di stimolare la creazione di opere letterarie imponendosi dei vincoli: a volte di tipo linguistico (come nel romanzo di Georges Perec La scomparsa, in cui per trecento pagine non si usa mai la vocale e), a volte di altro genere (nell’affascinante La vita istruzioni per l’uso, sempre di Perec, si immagina di togliere la facciata a un condominio e di raccontare le scene che si vedono nelle varie stanze secondo un ordine dato dalla mossa del cavallo negli scacchi).
Questo meccanismo combinatorio si rivela ricco di possibilità anche nel Castello di Calvino: così le storie dei vari personaggi prendono spunto da figure medioevali, come l’alchimista che vende al diavolo le anime di un’intera città, o il ladro di sepolcri che perde tutto per la troppa avidità; o da personaggi letterari come Orlando impazzito per amore e Astolfo che cerca il suo senno sulla Luna (in fondo anche l’Orlando furioso è un fitto intreccio di storie). Ma quando i personaggi hanno finito di disporre sul tavolo tutte le carte del mazzo, è il narratore che prende la parola; e leggendo in orizzontale le file che erano state disposte in verticale e viceversa, ecco che prendono vita “tutte le altre storie”, un intreccio di nuovi racconti che utilizzano gli stessi elementi di quelli narrati dai viandanti (e, nella seconda parte intitolata La taverna dei destini incrociati, dalle storie degli avventori si ricavano grandi miti come quelli di Edipo o di Faust, e le trame di Amleto e Macbeth)…
Un gioco dell’immaginazione e dell’intelligenza, quindi, ma un gioco serissimo e ricco di allusioni. Possiamo leggervi infatti il tema – frequente in Calvino – dell’inquieta relazione tra il mondo umano (ordine, razionalità) e il mondo della natura (istinto, caos). Ma anche le teorie sulla partecipazione del lettore alla creazione dell’opera narrativa: in fondo il nostro racconto è una semplice sequenza di carte, e il testo è solo una delle possibili letture, ogni lettore potrebbe legittimamente proporne altre…
Anche la costruzione di storie a partire da alcuni elementi fissi ricorda da vicino gli studi di Propp sulla Morfologia della fiaba, che individuava i personaggi caratteristici e le tipiche funzioni narrative delle narrazioni orali – e Calvino, autore di una grande raccolta di Fiabe italiane, era molto interessato a queste analisi.
Ma forse a colpirci è proprio l’idea che le storie si possano “costruire”, che anche agli oggetti inventati si possa applicare la capacità umana di manipolare le cose. E lo stesso autore sembra alludervi quando si raffigura in una carta particolare, il re di bastoni: «Un personaggio che se nessun altro lo reclama potrei ben essere io: tanto più che regge un arnese puntato con la punta in giù, come io sto facendo in questo momento, e difatti questo arnese a guardarlo bene somiglia a uno stilo o calamo o matita ben temperata o penna a sfera e se appare di grandezza sproporzionata sarà per significare l’importanza che il detto arnese scrittorio ha nell’esistenza del detto personaggio sedentario. Per quel che so, è proprio il filo nero che esce da quella punta di scettro da poche lire la strada che m’ha portato fin qui».
Giuliano Galletti
[Immagine tratta da Google Immagini]