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Jannis Kounellis e il gusto classico dell’avanguardia

Lo scorso 16 febbraio è scomparso Jannis Kounellis, uno dei padri dell’arte povera e concettuale. Un artista che era entrato nella contemporaneità con grande spirito rivoluzionario, senza abbandonare però la necessità di una sostanza critica che desse sostegno all’azione artistica.
Kounellis lasciò ben presto il Pireo per arrivare a Roma nel 1956, a soli vent’anni, iniziando il suo percorso all’accademia di Belle Arti sotto l’influenza dell’informale Toti Scialoja, allora docente. Nel 1960 inaugura la sua prima mostra nella storica galleria La Tartaruga, cuore pulsante della vita artistica e intellettuale romana di quell’epoca.
Forse proprio per le sue radici greche era così profondamente legato alla storia della cultura occidentale. Si definiva un pittore della tradizione, nonostante fosse un fiero promotore della libertà comunicativa, che esprimeva attraverso un assemblaggio materico multisensoriale – libero ma mai casuale. E un attento conservatore delle tracce di una civiltà in declino, la nostra, nonostante fosse un rivoluzionario dell’arte.
Aderì da subito al gruppo dell’Arte Povera, sotto la guida di Germano Celant, ma fu sempre difficilmente inquadrabile dal punto di vista artistico: non era di certo partitario di una pittura figurativa, ma in fondo neanche di quella astratta, sebbene amasse molto Pollock. Del pittore americano ammirava l’espressività libera, che trascendeva dal soggettivismo per farsi carico di un’energia quasi ancestrale e profondamente umana nell’essenza. Non apprezzava invece Warhol, per la sua prospettiva cinica e negativa, che offriva una visione passiva e seriale di una realtà prettamente americana e non esportabile.

La sua ricerca artistica era indirizzata verso la sperimentazione, nel definire nuovi linguaggi poetici, sempre espressione di una tensione verso la modernità e rivelatrice del potere alchemico dei materiali.
Travi di ferro e sacchi di carbone, pappagalli, cavalli, caffè, grappa, olio (i prodotti della terra e del lavoro dell’uomo), quarti di bue sanguinanti, ma anche oggetti del quotidiano ed elementi del naturale, con Kounellis entrano nei musei e nelle gallerie. Tutti oggetti che appartengono alla Storia e alla realtà e che, così decontestualizzati, acquisiscono una loro drammaticità, diventando narratori della Storia stessa.

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Kounellis continua un’azione di rottura rispetto alla tela, indagando i mezzi per uscire dal quadro e ponendosi, da questo punto di vista, in continuità con una ricerca artistica già avviata dalle Demoiselles d’Avignon di Picasso (1907), attraverso la frammentazione del soggetto e dello spazio rappresentato. Si inserisce così all’interno di tutta una generazione di artisti che negli anni Cinquanta-Sessanta scoprono i limiti dei confini e dell’ordine, per cercare di superarli, naturalmente attratti dall’altro.
Nella sua opera più famosa, con la quale nel 1969 inaugurò la galleria di Fabio Sargentini, 12 cavalli vennero legati all’interno degli spazi espositivi, come se si trattasse di stalle. Un’estremizzazione del collage in cui pezzi di realtà si inseriscono nello spazio di rappresentazione. Ma non era la provocazione quello a cui mirava l’artista – tralasciando i possibili dubbi sul valore etico di tale azione – al contrario, era un omaggio alla storia dell’arte. Il cavallo, epurato da possibili rielaborazioni stilistiche, viene presentato come archetipo puro. Un’opera che tra l’altro è stata riproposta nel 2015 all’interno della galleria di Gavin Brown a New York, e questo ci fa comprendere il valore ancora fortemente attuale della sua ricerca artistica.

kounellis_cavalli

Kounellis si è sempre considerato un pittore e, d’altronde, usava i materiali come colori: il nero del carbone e della fuliggine, il grigio dell’acciaio, il blu delle fiamme… Si definiva un artista sulla scia della tradizione, nel suo privilegiare uno stile ombroso, che considerava un segno espressivo tipico dei pittori italiani, e nel suo voler rappresentare la tragedia – canone classico per eccellenza – scolpendo con i neri e le ombre lo spazio.

«Io sono un pittore della tradizione. La mia logica è una logica da pittore. Il resto è difficile da definire. Un tempo esisteva un’arte tonale… il pittore era davanti al cavalletto e controllava le tonalità dei colori. Intendo Morandi e gli altri. Era, da un punto di vista poetico, crepuscolare. Era la borghesia che permetteva di vivere queste distanze. Ma il dopoguerra non è più crepuscolare, è molto più drammatico […]».

Ma questo non deve trarre in inganno, perché la sua visione era fondamentalmente ottimista: nella resa estetica del dramma vedeva la bellezza, ma era nell’idea progettuale che cercava la poesia. Proprio nella poesia Kounellis trova il senso dell’arte, o meglio del fare arte, d’altronde il termine greco poiesis significa inventare, creare.
La sua rappresentazione diventa un’esperienza sensoriale che mette l’uomo come fine ultimo dell’azione artistica. Qui sta il suo ottimismo di stampo umanista: l’uomo non può essere abbandonato a se stesso, ma va guidato per ricostruire un rapporto spontaneo con la natura e di consapevolezza con la realtà.
La continua connessione con la Storia, che Kounellis fa emergere nelle sue opere, ci fa riflettere sul valore della cultura e dell’essere umano in relazione al progresso. Il suo pensiero è sempre attuale: indagando la possibilità di ricongiungere natura e civiltà nella coscienza dell’uomo, Jannis Kounellis abbozza l’immagine di un nuovo umanesimo, in cui il valore del fare superi quello dell’apparenza.

Claudia Carbonari

[Immagini tratte da Google Immagini]

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