“L’innovazione è distruzione creatrice”
Joseph Schumpeter
La sentenza di Schumpeter sembra chiara, ma come si innerva nella cultura contemporanea? Prendiamo il celebre film ripreso dal libro di Cormac McCarthy messo in scena dai Fratelli Coen “Non è un Paese per vecchi”.
“Non è un Paese per vecchi” ci racconta una storia che sembra traslabile a tutto il mondo contemporaneo, una condizione di profonda alienazione in cui versano milioni di persone in tutto il mondo, individui che non ce la fanno a reggere l’urto del nuovo che avanza e il vecchio che persiste per forza d’inerzia. Milioni di persone se ne stanno lì, tra l’incudine del vecchio e del passato che non passa e il martello del nuovo pronto ad abbattersi su di loro, una condizione claustrofobica che si traduce esistenzialmente in una bolla paranoica di mediocrità dove le persone esperiscono inadeguatezza e altre sensazioni negative di fronte al mondo che cambia.
Che cosa è successo? Come siamo arrivati qui?
L’indagine dovrebbe partire dalle trasformazioni economiche e sociali come ci suggerirebbe il buon Karl Marx. Con l’avanzare degli anni e il prolungamento della vita, nella terza e nella quarta età (probabilmente se l’andamento demografico continuerà nel trend degli ultimi decenni ce ne sarà anche una quinta) incominciano a emergere le crepe di un processo considerato di fondamentale importanza nel corso dello sviluppo dell’uomo, quello di equilibrazione. Si tratta di un’attività di mediazione che consente all’individuo di affrontare le perturbazioni provenienti dall’esterno coordinando in modo nuovo le proprie azioni. I cambiamenti, le scosse, le novità provenienti dall’ambiente mettono in crisi gli schemi abituali delle persone (modi di pensare, agire, relazionarsi agli altri), le quali, se non vogliono soccombere, sono costrette a mutare questi schemi per trovare un nuovo equilibrio. E’ questo un processo particolarmente attivo nelle prime età della vita che con l’avanzare degli anni e la crescente strutturazione dell’identità soggettiva però diventa meno flessibile fino ad atrofizzarsi.
Che cosa accade, allora, se le perturbazioni provenienti dall’esterno sono troppo forti, rapide e spesso violente e non si ha la forza di padroneggiarle? Si assiste alla dissonanza cognitiva allo stato puro, cioè al divario tra ciò che la persona è abituata a fare e ciò che le si chiede d’imparare a fare, divario che spesso la spinge ad arroccarsi su posizioni arcaiche, che le appaiono l’unica via d’uscita dall’ansia o dalla paura. La nostra società dei consumi, del nuovo, richiede uno sforzo cognitivo e un sapere “troppo” nuovo – email a raffica, messanger, whatsapp, instagram, messaggi, interazioni virtuali, il cellulare che squilla, neologismi che fioccano misti a parole straniere sia nel linguaggio scritto che orale – le persone restano disorientate, l’anziano e non solo è sempre più affaticato e magari spaventato. Come se ne viene fuori? Si cerca un atteggiamento cooperativo per recuperare il gap tecnologico chiedendo aiuto ai familiari o si opta per limitare al massimo la sfera d’azione rifugiandosi in piccolo itinerari quotidiani o dilungandosi con chi gli capita a tiro in dure critiche del mondo che ci circonda. Sopraggiunge l’era del lamento. Quante lamentele sentite ogni giorno?
Tutto ciò è l’esito di due condizioni con le quali dobbiamo fare i conti, quelle della trasparenza e della fragilità. Quando siamo fuori dal mondo dell’innovazione e del digitale nessuno ci nota, nessuno ci interpella, nessuno ci propone un’attività comune, ecco allora che ci sentiamo trasparenti e non riconosciamo più l’immagine di noi stessi alla quale eravamo abituati. No innovazione, no party, siamo out. Se la trasparenza è una condizione oggettiva, la fragilità ne è la diretta conseguenza. Quando non si ha più un ruolo pubblico o sociale da assolvere si finisce per sentirsi inadeguati in tutto e per aver paura di fronte a ogni difficoltà.
Non è facile per molte persone affrontare tutti questi disagi, a meno che non siano state così previdenti da costruirsi per tempo molte uscite di sicurezza. Invece di crogiolarci nella speranza di un’eterna giovinezza, bisognerebbe che ognuno di noi, anche nella pienezza dei ruoli sociali e lavorativi, coltivasse di più il campo degli affetti, degli interessi, delle amicizie, campi che possiamo continuare ad arare fino alla fine. Certo anche la società dovrebbe fare la sua parte, con politiche che prevedessero percorsi che rendessero più facile abituarsi ai ritmi contemporanei senza però scivolare nella retorica del nuovismo e dell’innovazione, ma tenendo ben fermo il senso critico. L’innovazione non è di per sé né un processo buono né un processo cattivo, dipende sempre da una molteplicità di fattori e bisogna guardarsi bene dallo scivolare nella retorica del consumismo dove al concetto di nuovo viene associato automaticamente un significato positivo.
“I tempi folli in cui viviamo, purtroppo, hanno esaltato l’orgia del consumismo, dell’arrivismo e dell’individualismo, e sembrano aver respinto l’amore lontano, altrove. Non c’è più solidarietà semmai difesa dei propri privilegi. La civiltà capitalistica ci ha indotto a pensare esclusivamente ai “fatti nostri”: l’altro non è più né fratello, né nemico e neppure prossimo simile a me, piuttosto è un estraneo da evitare e, possibilmente, da schiacciare e sfruttare “
Don Andrea Gallo
Matteo Montagner
[immagini tratte da Google Immagini]