Quando si nasce si dà inizio a un percorso racchiuso in un tempo determinato, che è il limite entro il quale possiamo dare forma al nostro essere e costruire il senso del nostro stare al mondo. Per questo, venire al mondo e trovarsi “gettato” in esso crea un vincolo necessario tra la vita e la cura. Quest’ultima è l’innata e originaria predisposizione ad avere a cuore la vita preoccupandocene, dal momento che essa è precaria e soggetta all’imprevedibile contingenza. Così inteso, il vincolo vita-cura dura quanto la vita stessa ed esige, con eguale necessità, la relazione con gli altri.
In Essere e tempo Martin Heidegger sottolinea che l’essere-nel-mondo, per ciascuno di noi, è un originario mit-sein, un essere-con-gli-altri, un aprirsi a una dinamica relazionale, che si esprime nel vicendevole besorgen, preoccuparsi gli uni degli altri.
La cura ci lega agli altri a motivo della nostra strutturale incompletezza, che ci fa essere in uno stato di continuo bisogno. Se fossimo perfetti vivremmo nella condizione dell’apatheia, dell’imperturbabilità, che secondo Epicuro si confà solo alla divinità. Quest’ultima, calata nell’eternità, permane senza elementi di rottura, ostacoli o imprevisti. Noi uomini, però, come sottolinea anche Spinoza, viviamo calati nel tempo, che sottopone a continui cambiamenti e insidie la nostra vita, mettendola a dura prova, depotenziandola e sfavorendola. E poiché non godiamo dell’autarchia, dell’autosufficienza, e da soli non siamo in grado di affrontare le sfide e sopperire a tutte le esigenze della vita, la cura è essenziale. Essa ci consente di disporre di una forma di sovranità sul nostro tempo fuggevole e variabile, di approntare misure di protezione e di difesa, per portare a compimento il nostro progetto esistenziale e realizzare le nostre possibilità.
«“Il prendersi cura” del nutrimento, dell’abbigliamento nonché la cura del corpo ammalato sono forme dell’aver cura […]. L’aver cura, com’è ad esempio l’organizzazione sociale assistenziale, si fonda nella costituzione di essere dell’Esserci in quanto con-essere» (M. Heidegger, Essere e tempo, 2006).
Il prendersi cura vicendevolmente risponde a più bisogni, precisa Heidegger, condividendo questa convinzione con gli antichi greci, che utilizzavano termini diversi per esprimere le sfaccettature dell’avere cura.
L’avere cura nel senso di preoccuparsi delle necessità vitali, che i Greci chiamavano mérimna, risponde al bisogno di continuare a vivere e preservare il nostro essere, procacciandoci cibo, mezzi e ripari.
La cura che risana l’essere in caso di malattia, che i Greci nominavano terapéia, è l’insieme delle pratiche assistenzialistiche e mediche che rispondono al bisogno di ripristinare la salute e il nostro benessere fisico e psichico, poiché quando il corpo si ammala e soffre anche l’anima si ammala e soffre.
L’avere cura della vita, però, non si risolve solo nel procurare cose per conservarla o nell’alleviare le sofferenze e guarire le malattie. Poiché l’essere umano viene al mondo “mancante di una forma” e con un’innata tendenza all’autorealizzazione, c’è bisogno anche della cura che gli antichi greci chiamavano epiméleia heautoũ, che è quel prendersi cura di sé, concretizzando la migliore forma di vita possibile, sviluppando e consentendo la massima espressione delle proprie attitudini. La cura così intesa è una necessità esistenziale, in quanto è strettamente legata alla felicità, il sentimento di appagamento che si prova quando si sente la propria vita piena di significato, completa e realizzata.
Distinguendo terminologicamente la kur, la cura in senso medico-biologico, dalla sorge, la cura in senso emotivo-esistenziale, Heidegger sottolinea che anche la sorge, che persegue il fine della felicità, è un’impresa collettiva, presuppone la dimensione del mit-sein, e dunque la preoccupazione intersoggettiva alle sorti degli altri. In quest’ultimo senso la cura ha una connotazione fortemente etica poiché chiama gli altri alla responsabilità di farsi carico del bene e dell’umanità in senso lato, includendo quell’attenzione e partecipazione a rispettare e difendere il diritto altrui a una vita felice.
Lo sviluppo personale, infatti, non dipende solo dalle potenzialità individuali. Esso ha come presupposto un contesto relazione nel quale siano state approntate le condizioni per consentire all’individuo di realizzare la sua identità, favorendone e rispettandone l’autonomia, la libera capacità di espressione e di iniziativa. Si tratta di una forma di assistenza dell’altro che non può e non deve consistere nel «sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui […] intromettendosi al suo posto» (ivi).
Prendersi cura degli altri nel senso della responsabilità etica equivale ad «aiutare l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa» (ivi); vuol dire adoperarsi affinché l’altro giunga a realizzare consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria umanità. Ciò richiede un’etica della solidarietà e della tutela universale dei diritti che è un cammino in itinere, dal momento che, pur nella sua essenzialità e urgenza, è ancora tutto da percorrere.
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