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La cura nell’era dei nuovi sudditi

Nonostante la popolarità di Kate Middleton e della compianta Elisabetta II, ma anche delle regine Rania e Letizia di Spagna, il principe Harry e così via, credo che nessuno di noi rimpianga veramente i tempi in cui a governarci erano i re, detentori di enormi ricchezze, su un popolo di poveracci che a mala pena sbarcavano il lunario e morivano presto. Anche se, a ben vedere, non è che oggi ci siamo poi così lontani.

Certo, la democrazia è la forma di governo dell’Occidente e garantisce il potere al popolo, eppure lo squilibrio di risorse a livello globale è rimasto pressoché inalterato. Spero risulti a tutti indigesto il dato raccolto da Oxfam, secondo cui la ricchezza del mondo si concentra nelle tasche di pochi individui – l’1% –, che si traduce anche nel fatto che otto persone possiedono la stessa ricchezza (426 miliardi di dollari) di 3,6 miliardi di persone1. Se qualcuno ha ancora il dubbio che la nostra economia neoliberista e capitalistica non sia il volano per l’aumento delle disuguaglianze, provi a mettere su una bilancia dei chicchi di riso: il rapporto è di 8 milligrammi a 3,6 tonnellate. Non c’è dubbio che ciò farebbe spaccare qualsiasi bilancia.

Non credo che serva essere fanatici del complottismo per concordare che laddove c’è denaro c’è anche potere, per cui la democrazia non basta. O meglio, la politica dovrebbe ammettere che il capitalismo ha fatto il suo corso e ad oggi ci ha portati a squilibri mostruosi, e quindi che occorra cambiare piano d’azione, togliendo il profitto dal centro della scena. Ma per metterci che cosa?

Andreas Chatzidakis, Jamie Hakim, Jo Litter, Catherine Rottenberg e Lynne Segal – in arte The Care Collective – non hanno dubbi: al centro ci dev’essere la cura. Una cura che essi intendono come «la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni sociali, politiche, materiali ed emotive affinché la maggior parte delle persone e creature viventi del pianeta possa prosperare insieme al pianeta stesso»2. Laddove la nostra società neoliberista privatizza e incoraggia il profitto individuale, non può per definizione occuparsi veramente della prosperità e del benessere collettivi. L’Homo oeconomicus guarda al proprio vantaggio e dimentica di essere in relazione con altre persone e con altre creature viventi, almeno finché non arriva una pandemia mondiale, o una calamità climatica, una crisi finanziaria o un rovesciamento di fortuna personale che lo mette di fronte a una verità incontrovertibile: non siamo monadi isolate. Quindi tanto vale agire di conseguenza, perché la ruota può sempre mettersi a girare. Il Covid ci ha mostrato tutte le fragilità della privatizzazione sanitaria, della mancanza di servizi di cura, dello snobismo nei confronti dei professionisti della sanità: sono passati circa tre anni e sembriamo aver dimenticato i nostri eroi ed eroine degli ospedali, sembriamo aver messo da parte i rapporti di comunità che abbiamo intrecciato (ad esempio con i vicini di casa) e tutte le iniziative di mutuo soccorso sorte in quel periodo. Tanto per fare un altro esempio, quando la Grecia nel 2009-2010 finiva sotto la stretta della Troika per “salvarla” dalla crisi economica, negli anni successivi ha visto la nascita di 47 banche organizzate del cibo, 21 cucine solidali per la distribuzione di centinaia di pacchi alimentari ogni settimana, 45 reti senza intermediari per la distribuzione di oltre 5mila tonnellate di prodotti e circa 30 progetti di solidarietà sul piano educativo3.

Il Manifesto della cura cita molti progetti in giro per il mondo che dimostrano la possibilità di una cura orizzontale, promiscua, non mercificata, universale, dalle cooperative sociali ai laboratori di autoproduzione, alle biblioteche degli oggetti, al controllo di vicinato. Alcune di queste iniziative sono nate dal basso, eppure, osservano gli autori, «perché la cura universale […] diventi in principio organizzativo delle nostre società, è necessario che lo stato se ne faccia carico»4 e anche per questo, secondo la giornalista canadese Naomi Klein, «la cura è il concetto e la pratica più radicale che abbiamo a disposizione oggi»5.

C’è chi la potrebbe definire un’utopia, c’è chi potrebbe farsi sedurre dai sempre più numerosi casi di carewashing, cioè di tentativi da parte delle imprese di guadagnare legittimità presentandosi come cittadinanza socialmente responsabile, mentre in realtà contribuiscono alle disuguaglianze e alla devastazione ambientale. Eppure, scegliere di non scegliere, ovvero di lasciare che le logiche capitalistiche continuino a governare le nostre vite, ci si sta già ritorcendo contro, proprio come il Covid e il cambiamento climatico ci hanno e ci stanno dimostrando. La responsabilità è soprattutto sulla politica – e impariamo a diffidare della politica che si disinteressa dell’ambiente puntando il dito sui cittadini chiedendo di fare docce più corte e la raccolta differenziata – ma non è esente da ciascuno di noi. È la responsabilità insita nella relazione con l’altro da noi. Come scrive il filosofo Emmanuel Lévinas, infatti, è nella misura in cui il sé si costituisce attraverso la relazione con l’altro che siamo eticamente obbligati a prendercene cura. Così come l’altro si prende cura di noi.

 

NOTE:
1 – Qui il rapporto Oxfam: https://policy-practice.oxfam.org/resources/an-economy-for-the-99-its-time-to-build-a-human-economy-that-benefits-everyone-620170/ 
2, 3, 4 – The Care Collective, Manifesto della cura, Alegre, Roma 2021, p. 21, p. 84, p. 11, p. 12.

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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