La conclusione di una serie tv amata e seguita come Game of Thrones non poteva che causare polemiche, ampliate a dismisura dai social network. Eppure, come nota Nick Cohen in un articolo su The Guardian, è insolito che la fine di una saga fantasy così amata porti con sé più perplessità che commozione. Non era accaduto nulla di simile quando Il signore degli anelli e Harry Potter si erano conclusi; a nessuno ad esempio era venuto in mente di chiedersi: perché dopo aver ripreso l’anello Gollum danza felice sulle pendici del monte Fato invece di fuggire con il suo tesoro? Questo perché tanto la coerenza dei personaggi con le proprie azioni quanto il coinvolgimento emotivo dello spettatore erano mantenuti su un livello più alto. Quello che invece è mancato nel finale di Game of Thrones è stata proprio la narrazione, la capacità di affabulare il lettore e persuaderlo della credibilità degli eventi (da qui in poi attenzione agli spoiler).
La follia distruttrice di Daenerys ha semi antichi ed è ovvio che una volta che la regina dei draghi si è trasformata in una tiranna – proprio lei che era destinata a “spezzare la ruota” del potere e della sottomissione – debba morire. Ad ucciderla non può che essere Jon Snow, colui che la ama ma sa anteporre il proprio dovere ai sentimenti. E anche la scelta di Bran come re sembra la conclusione di un percorso simbolico: a regnare è colui che possiede la memoria storica dell’intera umanità e che, potendo imparare dagli errori del passato, sarà capace di governare in modo giusto.
A non funzionare non è quindi tanto il cosa, ma il come gli eventi sono stati raccontati. Da quando la serie tv si è separata dal suo creatore George Martin – solo consulente esterno nelle ultime due stagioni – ha perso anche la sua potenza narrativa. Senza dialoghi sagaci e capaci di rivelare la psicologia dei personaggi le azioni hanno cominciato ad apparire arbitrarie invece di essere conseguenze logiche ed inevitabili della personalità dei protagonisti. Se sul web così tanti hanno iniziato a domandarsi perché Arya o Tyrion hanno fatto x invece di y non è solo una conseguenza dell’epoca dei social network, dove tutti si sentono in dovere di criticare, ma anche di una sceneggiatura che ha smesso di evolversi in modo credibile.
È mancata poi la capacità drammaturgica di costruire i colpi di scena, accumulando tensione e sciogliendola in una sequenza. Eventi come l’esecuzione di Ned Stark o le nozze rosse avevano sconvolto gli spettatori; e non solo per quello che succedeva, ma per il modo in cui esse erano narrate. La morte di Daenerys nell’ultimo episodio avrebbe potuto essere un evento di questo tipo, eppure la scena manca di tensione drammatica: uno dei personaggi più longevi della serie, di cui abbiamo seguito da vicino aspirazioni e sofferenze, viene tolta di scena frettolosamente e senza nemmeno regalarle un’ultima parola.
Naturalmente sarebbe ingiusto giudicare una serie tv lunga otto anni solo per i suoi ultimi episodi, ma è un peccato che una saga di tale potenza si sia conclusa in modo così fiacco. E al contempo il particolare percorso di Game of Thrones ha molto da insegnarci. Il trono di spade è partita come una serie nerd a basso costo, costretta a recuperare costumi di fortuna. È poi cresciuta al punto da potersi permettere i migliori effetti speciali e scegliere scenografie spettacolari. Eppure, malgrado la qualità visiva abbia raggiunto vertici raramente toccati in tv, la serie ha perso fascino e potere immaginifico: in fondo avere una buona storia e sapere come raccontarla continua a rimanere il nucleo irrinunciabile di qualsiasi narrazione.
Lorenzo Gineprini
[immagine tratta da Unsplash]