Perché la mia generazione non si ribella? E – soprattutto – perché non si ribellerà mai? Non vorrei aggiungere fiumi di inchiostro multimediale a quello che altri hanno scritto su questo tema. Non vorrei farlo semplicemente perché molti di loro, se non tutti, non hanno la mia età.
Questo basterebbe a squalificare le loro analisi. Troppo distante il mondo in cui sono cresciuti per poter anche solo avvicinarsi al disastro antropologico ed economico degli ultimi 10-15 anni.
Bisogna vivere intensamente il tramonto per poter capire la notte che ci attende. Dipingere da posizioni di privilegio – spesso con toni moralistici – la crisi che ci ha investito, è un gioco letterario.
Riuscire a capire qualcosa della situazione attuale, per un giovane, è invece una missione politica chiara e definita. Per questo tutti i discorsi sullo scontro generazionale, sulla fine della moralità, sull’edonismo giovanile non hanno nessun senso se non prendono in considerazione la condizione di possibilità che ha permesso il loro avvento.
La risposta alle banalissime domande poste all’inizio, allora, diventa molto semplice. La mia generazione non si ribella e non si ribellerà mai al mondo proprio perché non è di questo mondo.
La “società dello spettacolo” – rubo l’espressione dal maestro Guy Debord – ha trionfato definitivamente. E noi tutti siamo stati traslati in una sorta di meta-mondo che con quello “materiale” non ha, apparentemente, nulla in comune.
I giovani vivono in una sorta di iperuranio telematico, elettronico, estetizzante all’ennesima potenza, che ha irrimediabilmente condizionato il loro di stare-al-mondo tradizionalmente inteso.
La società dello spettacolo di Debord presenta certo delle differenze sensibili, visto che cinquant’anni fa si poteva ben dire quale fosse il confine tra chi guarda e chi è guardato. Oggi tutto questo non è possibile, visto che quel limes è venuto meno, e la barriera tra osservato e osservatore è caduta miseramente.
Il gioco delle parti è diventato irreversibile, motivo per cui tutti possono guardare, essere-guardati e addirittura guardarsi dall’esterno.
La nostra è una società che si osserva nella sua interezza, e che ha perso qualsiasi movente per agire: quando è l’occhio (elettronico?) il perno di tutte le dinamiche sociali, è inevitabile il sorgere dell’abulia e dell’accidia che caratterizzano questa generazione.
Vedo e sono visto, quindi esisto, verrebbe da dire. E il comportamento dell’osservatore è – come da tradizione – quello di rimanere fermo ad analizzare nei dettagli la situazione.
Questo iperuranio estetico ha sicuramente radici materiali ed economiche, ma viverci comporta la netta eradicazione da qualsiasi impegno – politico e non solo – nel mondo. Ecco perché i giovani non si ribellano: le leggi del meta-mondo sono completamente diverse da quelle della realtà quotidiana di un tempo.
In questo senso si può parlare anche di un’alienazione radicale, visto che la vita delle radici viene completamente obliata, fin da subito. La protesica di cui ci siamo dotati per creare il mondo virtuale ha fatto sì che molti esponenti della vecchia generazione “perdessero” il treno della nuova modernità.
In molti casi si tratta di coloro che dovrebbero legiferare e amministrare governi e nazioni: il problema è proprio che appartenendo al mondo, e non al meta-mondo, la vecchia generazione si occupa, politicamente, solo del primo. L’iperuranio si è trasformato ben preso in una materia informe, anarchica e mimetica: sfido infatti chiunque a distinguere il mondo “vero” da quello “falso”. La sfida, come sempre, è vedere il doppio nell’unità.
Roberto Silvestrin
[Immagine tratta da Google Immagini]