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La società della performance delle Olimpiadi 2024

Le olimpiadi di quest’anno stanno confermando ciò che Feuerbach scriveva nel 1841: «E senza dubbio il nostro tempo […] preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere»1. Questo è, in breve, ciò che caratterizza la società della performance che vigeva nel 1800 e che vige, in maniera ancora più radicata, quest’oggi: un tempo nel quale puoi essere felice solo se sei primo, vinci la medaglia d’oro ed eccelli sopra a tutti, nessuno escluso.

Basti osservare la polemica che si è scatenata attorno all’episodio che vede coinvolte Benedetta Pilato, nuotatrice che si è classificata al quarto posto nella finale dei 100 rana, ed Elisa di Francisca, ex schermitrice italiana. Per chi non avesse seguito la questione: durante un’intervista con Rai Sport, fatta poco dopo il termine della gara, Benedetta Pilato si commuove e chiarisce che le sue sono lacrime di gioia, non di tristezza. Lo descrive come “il giorno più bello della mia vita” e fa comprendere a tutti la sua felicità per essere, così giovane, arrivata sino alle Olimpiadi e avere dato realtà a un sogno, che non è quello di ottenere la medaglia d’oro. Eppure queste lacrime non vengono apprezzate, soprattutto da Elisa di Francisca che, nel corso della trasmissione Notti Olimpiche, si chiede, riferendosi alla giovane nuotatrice: “Non so se ci fa o ci è”, e prosegue: “È rimasta male, è rimasta obiettivamente male, dai non è possibile che dica ‘sono contenta’, cioè ‘io non ci credevo’ […] è surreale questa intervista”. Davvero una giovane diciannovenne può essere felice per avere perso? E per un solo centesimo? Ma soprattutto perché ci aspettiamo che Pilato pianga di fronte a questo risultato?

Sono parole davvero forti, quelle pronunciate in risposta alle lacrime della nuotatrice, ma quello che credo possa essere utile fare non è attaccare di Francisca, come in molti hanno fatto, bensì mettere in luce quale “ideale” si trova dietro a queste parole e a questa logica del “se non arrivi primo non puoi essere felice”. In questo preciso episodio, infatti, lei non ha fatto altro che rendersi portavoce delle leggi non scritte della società della performance, che impone a tutti noi, contro la nostra volontà, di essere continuamente performer eccellenti2. Ed eccellenza, a quanto pare, non vuol dire neanche far parte dei più forti al mondo, ma essere il primo. Siamo tutti quanti perennemente concentrati sulla produzione di questo nostro sé che sia perfetto e che sia il numero uno. Così anche classificarsi quarto diventa una sconfitta e non è possibile che una ragazza sia contenta per il percorso che ha fatto, perché non rispetta i canoni imposti dalla società ai percorsi che possono renderti felice.

Della società contemporanea performativa scrivono i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici ne La società della performance (2018). In questo testo si chiedono: vince davvero solo chi arriva primo? E solo chi non si ferma mai? E chi è sempre produttivo al massimo? Queste domande sono ciò che spesso, erroneamente, riteniamo verità assoluta, ma dobbiamo riconoscere quanto una pseudo-verità simile sia deleteria. Lo è sia per il dialogo che ciascuno di noi ha con se stesso sia per il continuo confronto, che non dovrebbe essere scontro ma incontro, con gli altri. Ciascun soggetto ha bisogno di spazio e di vuoto, di accettazione dei risultati e di apprezzamento per il percorso che ha fatto, e non per la medaglia che ha ricevuto. Questo non vuol dire che la competitività sia un male o che non bisogna puntare alla medaglia d’oro; significa, invece, che la competizione deve essere prima di tutto con noi stessi e poi, in maniera sana e leale, con gli altri. Solo così si può dare il massimo ed eccellere, senza necessariamente il bisogno di essere primi su tutti per essere felici, e di essere continuamente e tossicamente performativi. Non dobbiamo sempre essere presenti, performativi ed eccellenti: ciascuno di noi deve coltivare questa convinzione dentro di sé e solo così si potrà superare, passo dopo passo, la società performante.

Anche se ci troviamo nel panopticon di cui parla Byung-Chul Han3, struttura in cui il soggetto è sotto il continuo sguardo giudicante e svalidante delle altre persone (o banopticon, quando abbiamo paura, con riferimento ai social, di essere bannati), dobbiamo dimenticare questo ambiente. Non dobbiamo curarcene, proprio come ha fatto Benedetta Pilato, che ci ha stupito, ed emozionato, con la sua gioia anti-performativa e umana. Questa è la lezione che la nuotatrice ci ha insegnato e che ci porteremo avanti per queste olimpiadi, per le prossime olimpiadi e, spero, per tutta la quotidianità.

 

NOTE
1. Cfr. Ludwig Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, 1841.
2 Cfr. M. Gancitano e A. Colamedici, La società della performance, edizioni Tlon, Roma 2018, p.25.
3. Cfr. B.C. Han, Psicopolitica, Nottetempo, 2016.
[Photo credit Amanda MA via Unsplash]

Andreea Elena Gabara

in continua ricerca, sensibile, dinamica

La mia vita è caratterizzata da due ricerche, una artistica e corporea e una filosofica e mentale: sono, infatti, una danzatrice contemporanea, diplomata al Teatro Carcano, e studio Filosofia all’Università degli Studi di Milano. I temi su cui queste due ricerche si concentrano sono l’Altro e le relazioni interpersonali, l’esistenza e la sua insostenibile leggerezza […]

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