Qualche mattina, non dico tutte, ma qualche mattina capita di sentirsi già stanchi. Come se avessimo corso tutta la notte nella ruota di un criceto. Macché tutta la notte! Forse questa sensazione è proprio legata alla vita di tutti i giorni. Ci sentiamo dei piccoli criceti chiusi in gabbia: a disposizione abbiamo soltanto la ciotola dell’acqua, quella del cibo e una ruota su cui salire. E poi si tratta di correre, correre per meritarci altra acqua, altro cibo, sotto gli occhi compiaciuti di un nostro padrone, di un genitore o di un superiore, di una moglie o di un figlio.
Alla fine sentiamo che tutto quello che facciamo è per gli altri.
Per un briciolo di approvazione, per aspettative o per obbligo. E senso del dovere, questa malattia dell’anima che si attacca come un parassita e ti corrode, lentamente, senza farsi mai sentire di troppo.
Basta.
Basta davvero.
Guardo qualche gabbia a fianco alla mia e vedo che qualche filosofo si è fermato. Qualcuno si è fermato a pensare, altri continuano a correre pensando, altri si sono fermati e basta. Qualcuno ha addirittura aperto la gabbia ed è andato fuori. Altri sono finiti su un tapis roulant che non fa affatto rimpiangere la ruota del criceto: almeno quella non doveva essere pagata mensilmente.
Allora chiedo aiuto a loro, ai filosofi.
Epicuro non se ne preoccupa neanche di queste paranoie, in fondo «quando noi siamo [vivi], la morte non c’è; e quando la morte c’è, allora noi non siamo più». Non dobbiamo nemmeno temere la morte, insomma, il più grande dei mali, perché tutto scompare quando arriverà. Non ci sarà casa che tenga, risparmi accumulati in banca, niente. E di questo se n’è reso conto anche Verga, quando fece barcollare Mazzarò che cercava di portarsi tutti i suoi averi nell’aldilà urlando: «Roba mia, vientene con me!».
Insomma Epicuro è uno di quelli da “bicchiere mezzo pieno”. Perché per lui quando la felicità è presente abbiamo tutto, quando invece è assente facciamo tutto allo scopo di averla. È benessere del corpo e serenità dell’animo, in pratica tutto ciò che ci allontana dalla sofferenza e dall’ansia.
Non è d’accordo invece la scrittrice giapponese Fumiko Hayashi, che in due versi rovescia il bicchiere: «La vita di un fiore è breve/ solo le sofferenze sono infinite». Insomma siamo ingabbiati senza possibilità di scampo. Condannati a correre senza fermarci.
Eppure Seneca avrebbe qualcosa da ridire: «È dunque felice una vita che segue la propria natura». Al di là della filologia su questa affermazione, assumiamo Seneca come nostro life coach e ci chiederebbe: qual è la tua natura?
Lì si annidano le possibilità della tua felicità, della realizzazione. Mandare tutti a fare… le loro nature, a perseguire le loro passioni. E noi le nostre. Con i nostri modi e le nostre diversità.
Certo ci scontriamo con la struttura sociale. Non possiamo fare tutto come se gli altri non esistessero, non possiamo preoccuparci soltanto del nostro benessere.
Ci pensa Popper a far chiarezza su questo punto: «L’attingimento della felicità dovrebbe essere lasciato agli sforzi dei singoli». La ricerca della felicità è cosa privata, un affar nostro. Spetta invece alla politica occuparsi di ridurre le nostre sofferenze più ampie, dato che la felicità è in ogni caso meno urgente degli sforzi volti a prevenire il dolore.
Al diavolo l’imperativo categorico kantiano allora, secondo cui dovremmo costantemente seguire la legge morale costruita dalla ragione. Per Kant infatti la felicità è un qualcosa d’indefinito, perché un essere umano non potrà mai conoscere a fondo i suoi desideri, cosa lo rende felice.
La filosofia ci insegna anche a dire di no. A rifiutare i pilastri come Kant. In fondo noi viviamo nel qui e ora, l’hic et nunc di cui parlavano i latini. Soffermiamoci su quello che ci sta accadendo attorno, in questo istante. E procediamo per gradi, per piccoli passi. I grandi cambiamenti non sono mai frutto di reazioni immediate. Quello è solo lo scossone iniziale, la suggestione che ci fa scappare, che desta attenzione. Poi è questione di fatica personale, di ricerca incessante e pialla. Pialliamo ciò che non ci piace, lo modelliamo a nostro piacimento.
E allora torna utile la toccante riflessione di Josè Ortega y Gasset «Quando in una strada solitaria l’auto si arresta spontaneamente il conducente, che non è un buon meccanico, si sente perduto e darebbe qualsiasi cosa per sapere cos’è l’automobile dal punto di vista meccanico. In questo caso la perdizione è minima (…) Ma, a volte, resta in panne la nostra vita intera, perché tutte le convinzioni fondamentali sono diventate problematiche (…) L’uomo, allora, riscopre, sotto quel sistema di opinioni, il caos primigenio con cui è stata fatta la sostanza più autentica della nostra vita. Incomincia a sentirsi assolutamente naufrago; di qui l’assoluta necessità di salvarsi, di costruire un essere più sicuro. Allora si ritorna alla filosofia».
E ricordiamoci che, usciti dalla gabbia, potrebbe andare peggio: potrebbe piovere.
[Immagine tratta da Google Immagini]