“I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, autentica invece è la realtà sociale e ambientale che li produce”. Era il 1963 quando queste parole comparivano per la prima volta sul grande schermo della Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Il film era Le mani sulla città, il regista Francesco Rosi uno dei più grandi autori del cinema italiano di tutti i tempi.
Originario di Montecalvario, zona tra le più povere di Napoli durante gli anni Venti del secolo scorso, Rosi trascorre la sua giovinezza nel capoluogo campano e, alla fine degli anni Cinquanta, fa il suo debutto dietro la macchina da presa con una storia, La sfida (1958), dove si intravedono già i temi che caratterizzeranno il suo cinema negli anni a venire. Le vicende di cronaca e il fascino magnetico di una città come Napoli sono le ossessioni che Rosi proverà a mettere in scena per gran parte della sua carriera, dando vita a un genere sempre in bilico tra finzione e documentario. Realtà e illusione si rincorrono all’infinito nella filmografia del maestro partenopeo, insuperato nella creazione di meravigliosi crocevia narrativi in cui il flusso di notizie locali genera immagini e personaggi universali, in bilico tra verità storica e dimensione allegorica.
“Cercare con un film la verità significa collegare origini e cause degli avvenimenti narrati con gli effetti che ne sono conseguenza” era solito ripetere in numerose interviste. Dalle contraddizioni della giustizia italiana passando per le collusioni tra i diversi organi dello Stato e lo sfruttamento edilizio partenopeo, fino al grande mistero italiano de Il caso Mattei (1972), il cinema di Rosi parte dal particolare per raccontare le condizioni di miseria e malaffare di un’intera nazione. Il volto che meglio ha incarnato le sue storie è stato quello di Gian Maria Volontè, maschera attoriale unica, in grado di dare forma e sostanza a personaggi come Lucky Luciano o lo scrittore Carlo Levi. Uomini realmente esistiti che, attraverso lo sguardo di Rosi, si sono trasformati in simboli immortali. Personaggi impressi nelle diciotto pellicole che il regista ha diretto per raccontare un’Italia ancor oggi piena di innumerevoli contraddizioni. Ciò che salta all’occhio, nella filmografia dell’acclamato cineasta campano, è però la purezza cristallina della sua comunicazione cinematografica. Il cinema di Rosi si nutre di vita vissuta distaccandosi dai canoni del neorealismo, la ricostruzione dei fatti è scientifica e accurata a tal punto che, molte volte, i personaggi sulla scena sono interpretati da uomini che, nella vita di tutti i giorni, ricoprono per davvero quegli incarichi.
Le immagini che Rosi ci ha lasciato sono una preziosa testimonianza della storia del Paese in cui viviamo e incarnano una domanda fondamentale per la settima arte: quanta realtà si cela nelle immagini del grande schermo? I film di Rosi ricorrono alla verità per creare una finzione autentica che racconta allo spettatore una storia in grado di portarlo sempre a una riflessione attiva e articolata, durante e dopo la visione dei film. L’enorme merito che gli va attribuito è quello di essere riuscito a trasformare le sue storie in paradigmi di una comunicazione etica, limitando ogni tipo di vezzo stilistico in nome di un messaggio di denuncia sociale il più possibile vero e autentico. È stato tra i primi a notare la trasformazione della politica in qualcosa di completamente autoreferenziale, interessata più alla perpetuazione di sé stessa che al bene collettivo.
Oggi i suoi film appaiono più che mai attuali. C’è tantissimo Rosi nel cinema politico del primo Paolo Sorrentino (Il divo), così come nella Gomorra di Saviano e Garrone, per citare solo due tra i registi italiani più noti di questi anni. Un maestro la cui lezione è destinata a rimanere dal momento che dovunque ci sarà bisogno di denunciare una verità che rischia d’essere infangata, non potrà che esserci un inevitabile richiamo alla politica delle immagini del cinema di Francesco Rosi.