Home » Rivista digitale » Cultura » Arti » L’arte dopo la sua morte
arte

L’arte dopo la sua morte

In una galleria d’arte contemporanea, è facile imbattersi in opere d’arte che, di primo acchito, sembra che abbiano qualcosa che non va. “Avrei potuto farlo anche io”, “anche un bambino saprebbe farlo” sono i commenti più gettonati di fronte a queste esposizioni. Il loro valore non risulta essere esplicito: si tratta di oggetti di uso quotidiano, non richiedono nessuna abilità particolare per essere realizzati. L’unica cosa che li rende opera d’arte sembra essere la loro presenza in un museo. Ma è davvero così? L’arte è andata in contro a una autodistruzione? O sfugge qualcosa?

Seguendo sulla falsa riga il filosofo Slavoj Žižek, possiamo denotare quasi un paradosso: il dominio del bello, proprio dell’arte, viene invaso dagli oggetti di design di uso quotidiano. Si ricerca sempre di più un aspetto di questi che mira a giungere alla bellezza, ma senza quel disinteresse cardine dell’arte: un oggetto di design svolge come prima funzione quello per cui è fatto, e solo in un secondo momento diviene apprezzabile come composizione. Questi non ricercano allora una mera contemplazione con il libero gioco dell’immaginazione, ma ricercano come prima cosa un uso pratico nella vita. Il concetto di bello si ricerca in entrambi campi, ma in un uno risulta centrale per capire cosa si ha davanti, nell’altro viene subordinato alla quotidianità.

Se le cose stanno così, andiamo in contro a un periodo di “saturazione del bello”, dove gli oggetti di design ricercano sempre una maggiore estetizzazione e l’arte rischia di perdere il suo ruolo: se tutto “è bello”, cosa offre unicità all’arte? Eliminare questa, però, equivarrebbe a eliminare una parte del mondo umano, un mondo in cui noi ci rispecchiamo per costruire un senso e allargare i nostri orizzonti. Per evitare ciò, ecco che allora l’arte ha dovuto cambiare prospettiva: questa non può più concentrarsi sull’oggetto da porre in quanto tale, quanto piuttosto sullo spazio che esso occupa. Si tratta di far esaltare il luogo che designa l’oggetto ad opera, non di esaltare l’oggetto in quanto opera:

«[…] il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di creare il vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza posto.» (S Žižek, Il Trash Sublime, Mimesis, 2000).

Proprio la presenza di un oggetto che non dovrebbe stare lì – che ‘tutti possono fare’ – permette all’unicità dell’arte di emergere, ma si tratta di un’unicità che non irradia dall’opera stessa quanto da quello scarto che rende un’opera tale e non altro. Il protagonista dell’opera diventa quello spazio che, pur non avendo una estensione, è sempre dato per scontato rispetto alle nostre aspettative: un’opera che richiede una applicazione tecnica elevata. Il concetto di ‘arte’ incomincia a delinearsi una accezione diversa: indica quello che non si ha davanti, quello che non viene percepito in modo distinto davanti a un’opera ‘normale’, ma che si percepisce solo se si avverte uno shock tra lo spazio ricoperto e l’oggetto effettivo. Questo scarto che sopravvive viene così colto solo se messo alle strette:

«Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte […] non è semplicemente quello di dimostrare […] come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo Sacro c’è ancora» (ivi).

L’arte contemporanea risulta allora non ricercare una sensazione di piacevolezza e di ammirazione ma un violento urto che si registra di fronte a questi ‘escrementi’, a questi oggetti di vita quotidiana. Questo cambio di focus comporta anche la creazione di una confusione che costringe a chiedersi non che cosa sia, ma perché sia; non si tratta di cercare un significato tanto nell’opera quanto in noi stessi: in questo cortocircuito che si crea nel non comprendere come possa quella cosa essere considerata arte, si viene interrogati da questa. l’oggetto che si ha davanti nasconde ben altro rispetto al semplice oggetto, chiamando una rimessa in discussione di se stessi.

«Oggi il vero trash sono gli stessi oggetti “belli” dai quali siamo continuamente bombardati da tutte le parti; di conseguenza, l’unico modo per sfuggire al trash è di mettere il trash stesso nello spazio sacro del Vuoto» (ivi).

Siamo di fronte sì ad una morte dell’arte, ma una morte che non ne segna la fine quanto piuttosto una rinascita: non siamo più noi ad analizzare l’opera, ma è l’opera ad analizzare noi.

 

NOTE
Photocredit Paolo Bendani via Unsplash. Si tratta di un opera di Anish Kapoor.

Tommaso Donati

Tommaso Donati

Preciso, Ambizioso, Studioso

Sono nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, e tutt’oggi vivo nei paraggi di questa città. Seguendo la passione per la filosofia, ho deciso di continuare gli studi presso la medesima facoltà dell’Università degli Studi di Milano che tutt’ora frequento. Mi piace leggere tematiche di vario tipo dalla filosofia alla letteratura alla scienza: ogni occasione è […]

Gli ultimi articoli

RIVISTA DIGITALE

Vuoi aiutarci a diffondere cultura e una Filosofia alla portata di tutti e tutte?

Sostienici, il tuo aiuto è importante e prezioso per noi!