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L’arte non è serena: epiphany davanti a Guernica

Sei a Madrid e sai che una delle mete imperdibili è il museo d’arte Reina Sofìa. Tra i tanti capolavori esposti, Guernica di Pablo Picasso, realizzato nei due mesi successivi al bombardamento aereo italo-tedesco del 26 aprile 1937 sulla cittadina basca di Guernica, in accordo con i franchisti. Si dice essere stato il primo bombardamento sulla popolazione civile della storia. Quasi duemila morti.

Un po’ te ne dimentichi quando, dopo l’acquisto del biglietto e aver lasciato i tuoi oggetti negli armadietti, cominci ad avventurarti nel museo. C’è davvero tanto da vedere, e così, dopo almeno mezz’ora di visita, arrivi a Guernica in una tale immersione nell’esposizione che quasi non te ne rendi conto. È vero, nelle sale precedenti ci sono manifesti della guerra civile, copertine di riviste che ne parlano, foto dei reportage dell’epoca, ma sei talmente intento a seguire il filo della storia che ti dimentichi di stare arrivando lì, persino mentre varchi l’ennesima soglia. E la prima cosa che vedi di fatto non è l’opera ma una folla, variopinta e silenziosamente chiassosa: è quella che ti fa capire che ci sei. Vedi il lembo superiore di un’immensa tela ma non variopinta, questa: solo bianco, nero e sfumature di grigio, che spuntano qui e lì tra i colori delle persone. I ritagli di questa immensità desaturata ti colpiscono terribilmente e ti lasciano un certo turbamento.

Per questo decidi di prendertela con calma. Volti lo sguardo e ti soffermi sugli studi preparatori appesi alle pareti di fronte, le immagini create da Picasso dopo Guernica, testimonianza di quanto fosse difficile per lui voltare pagina dopo quell’esperienza. Poi, siccome non rimane altro da guardare, finalmente ti decidi a girarti.

La folla è ancora lì: come vasi comunicanti si svuota e si riempie costantemente. Cominci a guardare l’opera a pezzetti, al di là dello skyline di teste, capelli, cappelli. La guardi e sai che è il punto di sintesi della storia raccontata nelle sale precedenti, contestualizzi la guerra con più attenzione. Ti soffermi sui dettagli perché è difficile avere lo sguardo generale – è lunga quasi otto metri e alta più di tre – il che fa sorridere perché di solito non è così difficile vederla nel suo insieme, stampata sulla carta di un libro o compressa in una pagina web. Ti ricordi bene che c’è quel piccolo dettaglio, quello che vai sempre a cercare con lo sguardo ogni volta che vedi l’opera riprodotta da qualche parte. Decidi di tenerlo per ultimo. Indugi nelle immagini dell’orrore della guerra e all’improvviso ogni dettaglio ti sembra sovrapponibile a foto viste di recente: viste aeree su Rafah, palazzi sventrati in Yemen, lacrime ucraine, corpi urlanti siriani, e infiniti altri – almeno 100 conflitti attualmente in corso nel mondo, secondo Oxfam. Poi prendi coraggio, ti avvicini un po’ di più, fai slalom tra gomiti e borse e vai a cercare quel fiorellino lì. Trovarlo è una sorpresa, perché anche se lo sapevi che c’era, riesce a emozionarti. Perché quel fiorellino è grande. L’hai sempre visto riprodotto in piccole dimensioni e ti è sempre sembrato piccolo, una piccola speranza, e invece no. Certo, nelle proporzioni del quadro è piccolo, ma al tempo stesso è grande, un piccolo grande dettaglio. Una grande speranza.

Quando decidi finalmente di andare oltre, nell’altra sala, la storia dell’arte continua, continua la storia della vita. È normale però che dopo quella tela un po’ ti estranei, ti dici “non si può andare avanti dopo aver visto qualcosa del genere, la storia dell’arte è finita”. Così come dopo ogni guerra. E invece va avanti, si deve andare avanti, l’importante è non dimenticare, non lasciare Guernica nel 1937 e non riconoscerla nelle foto di tutti i reportage di guerra, nelle parole dei giornalisti di tutti i tempi, perché il vero comun denominatore di tutti gli atroci conflitti mai esistiti è che non c’è nessun vincitore e l’umanità è morta, dopo ogni guerra l’umanità muore. Deve rinascere ogni volta, a fatica, e ogni volta perde un pezzettino di sé.

Troppo a lungo – e ancora oggi – il discorso sull’arte è stato monopolizzato dalla questione del bello. Non che l’estetica sia una branca priva di senso, ma credo che l’arte possa essere una valida alleata di ogni discussione sociale. Del resto, è stata capace di dare colore e forma a ogni svolta epocale della storia, è capace di rendersi partecipe di ciò che accade. Picasso è uno di quegli artisti che ha visto nell’arte «il riflesso, e il tribunale, del presente – forza distruttrice e, insieme, vitale» (V. Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, p.13). Anche il filosofo Theodor Adorno se lo chiedeva nel 1967: è serena l’arte? Risposta: no. L’arte «si addentra nell’ignoto […] fino a farsi sfida al disincanto, perenne tensione […] è qui il suo senso profondo, la sua sostanza poetica» (ivi, p. 33). O almeno questa è l’impressione che ne hai, sensibile visitatore o visitatrice del Museo Reina Sofìa, mentre ti allontani da Guernica e cerchi di domare quel turbamento che ti è nato dentro.

Giorgia Favero

plant lover, ambientalista, perennemente insoddisfatta

Vivo in provincia di Treviso insieme alle mie bellissime piante e mi nutro quotidianamente di ecologia, disillusioni e musical. Sono una pubblicista iscritta all’albo dei giornalisti del Veneto, lavoro nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale tra social media management e ufficio stampa. Mi sono formata al Politecnico di Milano e all’Università Ca’ Foscari Venezia in […]

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