La battaglia tra Hillary e Trump è giunta ormai a termine, e ora non possiamo che restare pazientemente in attesa del gran finale. È innegabile che queste elezioni abbiano assunto un significato molto più ampio della nomina del nuovo presidente degli Stati Uniti, stando a rappresentare uno scontro di forze ed ideologie antitetiche diffuso a livello globale. Purtroppo però, bisogna ammettere che in entrambi i casi il vincitore sarà il leader USA tra i meno desiderati della storia.
Se da un lato Trump incarna palesemente una visione razzista, omofoba, misogina e bigotta, dall’altro Hillary rappresenta un establishment politico consolidato e conosciuto, in parte garante dello status quo e in parte non immune alle ambiguità del potere.
Viene quindi naturale chiedersi quanto sia legittimo un voto dato contro piuttosto che per qualcuno, e se la scelta del male minore possa effettivamente tutelare i principi e i valori che ci rappresentano.
Ma nel contesto di una campagna elettorale il male minore diventa il prezzo da pagare per la democrazia, la quale indica già in sé la necessità di un compromesso tra le parti.
Senza dilungarmi troppo in approfondimenti politici, vorrei invece cambiare prospettiva su un argomento così dibattuto come queste elezioni e focalizzare l’attenzione sulla capacità del mondo dell’arte di offrire un punto di vista alternativo sulla questione.
Analizzando le forme espressive, più o meno politicizzate, che si sono manifestate negli ultimi mesi, appare subito come la maggior parte degli artisti si sia schierata a favore di Hillary, anche se sarebbe più preciso dire contro Trump e i suoi slogan di intolleranza ed ignoranza.
Illma Gore e Sarah Levy, due artiste piuttosto conosciute, hanno attaccato direttamente l’atteggiamento sessista che da sempre caratterizza il magnate e che durante la campagna elettorale è emerso limpidamente.
Il ritratto che Sarah Levy ha fatto del candidato, usando sangue mestruale, richiama l’attenzione sui pregiudizi della società nei confronti della donna e più direttamente è la risposta alla poco elegante affermazione di Trump verso la giornalista Megyn Kelly: “You could see blood coming out of her eyes, coming out of her wherever”.
Illma Gore l’ha invece immortalato ridicolizzandone l’immagine di uomo virile, e guadagnandosi per questo un’aggressione da parte di un elettore evidentemente turbato dal ritratto poco glorioso del tycoon. La Gore non si è certo fatta intimidire e ha portato avanti il suo lavoro di protesta con l’opera successiva: l’installazione di una staccionata bianca lungo il confine USA –Messico con un cartello su cui compare la scritta “For sale, american dream”.
L’elenco potrebbe andare avanti a lungo: dal murales Dump-Trump di Hanksy, alla lapide (da artista anonimo) installata a Central Park con l’epigrafe “Made America hate again”; dalla bambola gonfiabile di Saint Hoax, al piccolo muro costruito dallo street artist Plastic Jesus intorno alla stella del candidato nella Hollywood Walk of Fame. Solo per citarne alcuni.
Diciamocelo, la figura di Trump non è difficilmente attaccabile nel suo essere stereotipato e culturalmente poco preparato.
In alcuni casi si è messa in luce la vicinanza dei due candidati piuttosto che gli elementi di rottura. Ne è un esempio il collage di Mark Wagner in cui i volti di Hillary e Trump sono fatti interamente di banconote, a sottolineare la visione profondamente capitalista di entrambi; oppure il murales di Lushlux che li ritrae in un bacio appassionato.
Qualche attacco più personale però l’ha ricevuto anche Hillary: è il caso della campagna di street art apparsa subito dopo l’annuncio della Clinton di concorrere alla Casa Bianca.
Quest’azione è in realtà una risposta al gruppo HRC Volunteers, in sostegno – anche se non ufficialmente – di Hillary, che aveva reso pubblico un elenco di aggettivi non utilizzabili in riferimento alla candidata per le loro connotazioni sessiste.
Esiste anche il rischio che l’opera d’arte sia oggetto di interpretazioni diverse, è il caso del lavoro di Sarah Sole, in cui vediamo una Hillary che punta sull’osservatore una pistola. L’artista è da sempre una convinta sostenitrice della Clinton, eppure lo stesso ritratto è stato usato come copertina per il libro di un suo noto oppositore, l’economista Dough Henwood (anche se qui la naïveté dell’autrice del dipinto è alquanto sospetta). La storia di quest’immagine è interessante in quanto rivela le pericolose ambiguità del messaggio visivo, facilmente strumentalizzabile.
È però stato spesso criticato agli artisti, da parte di giornalisti e intellettuali di settore, l’incapacità di cogliere il vero volto dell’elettorato americano di queste presidenziali. È evidente la preferenza per una forma d’espressione puramente satirica e offensiva, incapace di indagare oltre la superficie, per cui le opere al di fuori del contesto perdono parte del loro significato.
Se pensiamo invece al ritratto eseguito da Shepard Fairey, “HOPE”, per la campagna di Obama del 2008, si coglie subito l’ideale collettivo e il sentimento diffuso in quel momento negli Stati Uniti, che trovava un riscontro nel messaggio che il futuro presidente voleva offrire al Paese. L’artista ha rappresentato un momento storico preciso, una necessità espressa dalla popolazione e un’intenzione poi esplicitata nell’elezione di Obama.
Nessuno dei due candidati attuali è invece riuscito a mettere in luce una personale visione propositiva rispetto al futuro.
Ora, aldilà che ci siano delle fondate ragioni per attaccare “artisticamente” un personaggio politico, quest’analisi vuole concentrarsi sulla reale forza sovversiva di tali azioni, che purtroppo difficilmente è emersa. In altre parole l’arte non è stata in grado di diventare uno strumento collettivo di presa di coscienza e di riflessione, non ha offerto una prospettiva diversa sulla questione e non ha indagato le complessità della situazione reale.
Il rischio è quello di essere controproducenti: le azioni degli artisti anti-Trump, per esempio, hanno per lo più evidenziato l’opzione Clinton come male minore, senza riuscire a ricompattare l’elettorato democratico.
Per concludere vorrei citare alcuni artisti che sono stati comunque in grado di sviluppare una riflessione più profonda. Un esempio è la già citata staccionata di Illma Gore, che punta il dito sulla volontà di Trump di costruire un paese fondato su muri divisori, una visione che secondo l’artista contrasta con i valori di base dell’America stessa.
Un altro esempio interessante è l’opera itinerante del collettivo T.Rutt, che ha acquistato un bus della campagna di Trump per poi rielaborarlo: su un lato vediamo lo slogan T.RUMP: #make fruit punch great again! e sull’altro T.RUTT: #woman trump trump trump.
Il bus gira di città in città portando avanti la sua campagna di protesta contro il candidato in una forma piuttosto sottile. A prima vista il mezzo sembra autentico: c’è chi si fa il selfie con il bus come sfondo e c’è chi invece decide di vandalizzarlo.
È il ritratto di una situazione reale complessa: aldilà dei risultati finali ciò che emerge è come l’America abbia perso se stessa, scissa in due ideologie opposte, tra chi vuole chiudersi alle trasformazioni della modernità e chi è pronto ad affrontarle attraverso il confronto costruttivo e la cultura.
In ogni caso è interessante osservare come l’opera unisca concretamente le due fazioni del paese diviso, offrendosi alla partecipazione, e stimolando una riflessione su quella che sarà la reale sfida nel futuro immediato degli Stati Uniti: riuscire a instaurare un dialogo tra le due parti.
Claudia Carbonari
[Immagini tratte da Google Immagini; immagine di copertina tratta da illmagore.com)