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Kandinsky

L’artista asceta in Kandinsky

Nell’“era della riproducibilità tecnica” l’arte tende a subordinarsi alle logiche di mercato. L’opera bella è misurata in termini di vendibilità per le imprese o gli attori che la promuovono. Con l’avvento della «società dello spettacolo»1, e in particolare negli ultimi vent’anni con lo sviluppo dei social, comincia inoltre ad essere progressivamente abolita la distinzione tra artista e opera d’arte. L’artista che vuole affermarsi deve apparire, costruire uno storytelling efficace attraverso cui esibire, spettacolarizzare le fasi del processo creativo e il gesto artistico stesso. L’enfasi si sposta sull’artista, mentre l’opera d’arte passa in secondo piano.

Accanto ai limiti imposti all’arte dalla società capitalista (già individuati da filosofi come Walter Benjamin2), si aggiungono allora nuovi aspetti inquietanti. Sembra quasi che nell’epoca degli influencer l’artista rinunci alla distinzione tra interno ed esterno, che debba mostrare ogni fase della sua ricerca estetica sullo spazio a una dimensione dello schermo. L’artista odierno piega la verticalità, ossia il cammino solitario che eleva verso il «monte dell’improbabile»3, a un’orizzontalità digitale e indicizzata in cui contano i followers, i likes, le condivisioni e le visualizzazioni.

Alla luce di queste considerazioni può essere utile ripercorrere brevemente il compito che un grande pittore del Novecento, Vassily Kandinsky, affida all’artista.
Per Kandinsky l’artista è prima di tutto asceta, un uomo che pratica costanti esercizi spirituali. La natura gli ha dato un dono; osserva Kandinsky ne Lo spirituale nell’arte:

«una misteriosa capacità di “vedere” in lui innata. Egli vede la via e la indica. Talvolta egli si priverebbe volentieri di quella dote superiore che è spesso per lui una croce pesante da portare, ma non può. Schernito e odiato, trascina sempre con sé, in avanti e in alto, il pesante carro dell’umanità, che resiste e si impunta nei sassi» (V. Kandinsky, Tutti gli scritti, Feltrinelli, 1974, p. 72).

Il verbo “vedere” ha una doppia valenza. L’artista «vede la via e la indica», perché vede quello che agli altri passa inosservato. Il dono dell’artista è prima di tutto un senso ipertrofico. Il pittore coglie sfumature, colori che l’uomo comune non scorge. Il “dono” diventa però una missione. Non bisogna lasciarsi coinvolgere dall’imperativo del profitto o delle aspettative del pubblico. Per Kandinsky la verticalità è la parola d’ordine del vero artista. Il senso ipertrofico è infatti allo stesso tempo il senso (-direzione) da indicare all’umanità. L’artista asceta deve concentrare le proprie energie «verso la natura interiore […] in modo consapevole o inconsapevole, gli artisti obbediscono al “motto socratico” “conosci te stesso!”» (ivi, p. 89).

Il “conosci te stesso” è qui finalizzato all’esplorazione del mondo sensibile, al punto che l’artista potrebbe essere definito come un “esploratore” della sensibilità. La scelta del termine non è casuale. Impiegato da Epitteto per definire il saggio, si può istituire una similitudine. Come il filosofo è un esploratore «perché rivela agli uomini ciò che è loro favorevole e ciò che è loro ostile» (Epitteto, Tutte le opere, Bompiani, 2009, p. 697), l’artista esploratore attraversa nuovi orizzonti “estetici”.
L’esplorazione dell’artista può essere pensata come un’avventura spirituale volta a sradicare i costrutti culturali insiti nella sensibilità. La cultura influenza infatti non solo la rappresentazione del mondo, ma anche la percezione. La sfera predicativa si riverbera su quella ante-predicativa.

Ecco allora tracciato un orizzonte in cui ripensare la funzione dell’artista nella nostra società.
All’artista corrotto dal capitalismo, Kandinsky contrappone l’artista asceta, che intraprende un percorso difficile, dai risultati incerti, e non di rado di emarginazione e di incomprensione.
All’artista che vive nel visibile, Kandinsky contrappone l’artista che soggiorna nell’invisibile, nella dimensione silenziosa, densa di chiaroscuri e di ombre, della propria anima.
All’artista che si fa spettacolo, che si fa social, Kandinsky contrapporrebbe un artista che si cela, che pratica il “vivi nascosto”, che mette al centro la creazione di un’opera in grado di lasciare all’umanità un potenziale di virtualità estetiche e assiologiche inespresse.
Riproporre l’immagine dell’artista di Kandinsky potrà risultare “rétro”. Eppure può essere chiamato artista chi non conduce l’uomo verso forme più alte di spiritualità?

 

NOTE
1. Cfr. G. Débord, La société du spectacle, Gallimard, 2018.
2. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica, a cura di F. Desideri, Donzelli, 2012.
3. Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, tr. it. S. Franchini, Raffaello Cortina, 2010, pp. 135-161.
Photocredit Frankie Cordoba via Unsplash

 

Salvatore Grandone
Insegna Filosofia e Storia nei licei. Ha conseguito due dottorati di ricerca in Scienze filosofiche (Università di Napoli Federico II) e in Lettres et Arts (Università Stendhal Grenoble III). Ha pubblicato diversi volumi in lingua italiana e francese. Tra i suoi saggi più recenti si segnalano L’esercizio del pensiero (Diarkos 2020) e Duelli filosofici (Diarkos 2022).

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