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L’autodeterminazione in “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville

La potenza di un’opera letteraria deriva, spesso, dalla sua capacità di farci interrogare e di far scaturire in noi dilemmi nuovi ad ogni rilettura, questo a prescindere dall’epoca nella quale è stata scritta, caratteristica che rende alcune opere dei classici tout court. Tra i testi che possiamo definire, appunto, classici mi ha particolarmente colpito un racconto pubblicato a metà dell’800 per la quasi incredibile attualità del suo protagonista che s’inserisce, forse suo malgrado, nel dibattito attuale sul tema della ricerca, a tratti esasperante, di un equilibrio tra la vita lavorativa e privata fino ad arrivare a quella che oggi chiameremmo “resistenza passiva”, un rifiuto estremo che può lasciare attoniti gli interlocutori dell’individuo che decide di metterla in pratica. Si tratta di Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street di Herman Melville apparso, inizialmente, in due puntate sul Putnam’s Magazine e integralmente nella raccolta The Piazza Tales nel 1856. All’inizio del racconto ci troviamo davanti ad una situazione del tutto normale, un avvocato – che è anche il narratore della vicenda – assume uno scrivano che si dimostra molto zelante nel suo lavoro di copista, seppure svolto in maniera quasi meccanica:

«Sulle prime, Bartleby ultimò una straordinaria quantità di scritti. Come se avesse lungamente coltivato un copioso appetito di qualcosa da poter copiare, egli pareva, letteralmente, ingozzarsi con i miei documenti. Non vi era alcun momento di pausa nemmeno per la digestione» (Herman Melville, Bartleby lo scrivano, 2021 ebook flower-ed, p. 56).

La svolta avviene quando il titolare chiede allo scrivano di eseguire un compito un poco diverso; a questa richiesta Bartleby rifiuta pronunciando un gentile quanto lapidario preferirei di no che per Bartleby diventa una sorta di mantra e per l’avvocato qualcosa di inspiegabile, ambiguo. 

«Nella mia fretta e nello stato di naturale aspettativa di istantanea disponibilità, me ne stavo seduto con la testa china sull’originale e la mia mano destra tesa a lato a tendere, con una certa dose di nervosismo, una copia, cosicché, emergendo prontamente dal proprio nascondiglio, Bartleby potesse afferrarla e procedere al lavoro senza il minimo ritardo. […] Immaginatevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando senza muoversi dal proprio rifugio, Bartleby, con il suo tono di voce singolarmente mite ma fermo, rispose, ‘preferirei di no’» (ivi pp. 59-60). 

Il rifiuto di Bartleby, oltre ad esasperare l’avvocato, non è momentaneo; anzi, al contrario, si protrae in un tempo che appare infinito fino a comprendere, giorno dopo giorno, tutte le sfere della sua vita portando ad un epilogo tragico ma, allo stesso tempo, quasi di enorme auto-liberazione da tutte le regole imposte dalla società. Da un certo punto di vista, leggendo il racconto, si ha infatti la sensazione che Bartleby gradualmente finisca per incarnare, con le sue azioni o meglio il suo rifiuto ad agire, il principio di autodeterminazione seppure in maniera estrema e, allo stesso tempo, quella profonda alienazione del lavoratore che, a un certo punto della sua vita professionale, non desidera aggiungere nulla di suo al lavoro quotidiano scegliendo di compiere solo lo “stretto indispensabile”. Soprattutto nella prima parte del racconto, infatti, si potrebbe scorgere nello scrivano un vero e proprio distacco dal lavoro perché non c’è un coinvolgimento tale da poter “giustificare” un carico diverso da quello prestabilito. 

È interessante notare come questo atteggiamento oggi potrebbe essere assimilabile a un concetto, a una prassi molto diffusa della quale abbiamo spesso sentito parlare, soprattutto a partire dagli anni della pandemia e cioè il quiet quitting. Il neologismo, nato sui social network, assume il significato di abbandono silenzioso, un atteggiamento che porta il lavoratore – non sempre del tutto consapevolmente, almeno in principio – a rifiutare attività extra e in qualche modo a resistere alle pressioni attenendosi a quello che è strettamente necessario. Un atteggiamento che stride con i dettami della nostra società che ci vorrebbe sempre performanti, attivi e competitivi. Lo scrivano, così, con il suo enigmatico ma deciso rifiuto, con il suo desiderio di sottrarsi alle regole imposte da una realtà che non sente sua arriva ad incarnare un sentimento quanto mai attuale e a invitarci a riflettere su quelli che sentiamo i nostri personali limiti da non far superare, sulla possibilità di non lasciarci sempre travolgere dalla quotidianità rispondendo solo “sì” ma di decidere in maniera libera e autonoma per noi stessi. 

 

NOTE
[Photocredit Aleksandra Sapozhnikova by Unsplash]

Veronica Di Gregorio Zitella

Veronica Di Gregorio Zitella

curiosa, determinata, sognatrice

Sono laureata in Lettere e Filosofia e tutto il mio percorso accademico si è svolto alla Sapienza di Roma dalla triennale al Master in Editoria, giornalismo e management culturale e le mie più grandi passioni sono la filosofia, la lettura e la comunicazione; dalla fine del 2018 mi occupo di social media e comunicazione digitale […]

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