Scandisce il ritmo delle nostre giornate, alimentando aspirazioni e frustrazioni, gioie e ansie. Ci spinge a metterci in gioco, a realizzarci, ma anche a cercare un equilibrio più appagante tra le diverse sfere della vita. Da sempre al centro del dibattito filosofico, il lavoro è stato oggetto di riflessione per pensatori, come Aristotele, Max Weber, Karl Marx, Herbert Marcuse, Hannah Arendt, Zygmunt Bauman e Michael Walzer, che hanno esplorato il suo complesso rapporto con la libertà. Il lavoro ci libera, consentendoci di esprimere la umanità che custodiamo, attraverso la nostra vocazione, o ci incatena a una routine priva di slanci?
La crisi del lavoro contemporanea mette in discussione le sue conquiste fondamentali, come l’uguaglianza, l’autodeterminazione, la felicità nella socialità e, appunto, la libertà. La sua centralità nella costruzione della nostra identità sociale e personale ha spesso generato due reazioni opposte: l’idolatria, in virtù della quale ciascuno di noi esiste per l’azienda (e non viceversa, come racconta Weber nel 1920 in Protestantesimo e spirito del capitalismo) e si identifica completamente con la propria professione, e la svalutazione, per la quale il lavoro è percepito unicamente come mezzo per raggiungere altri fini.
Accentuando il senso di precarietà dell’individuo, la recente pandemia ha spinto molti di noi a riconsiderare il lavoro, non più come priorità assoluta, e a rivendicare tempo e spazio per la nostra vita. Il crescente divario tra aspirazioni professionali e personali ha portato alla diffusione di fenomeni come le grandi dimissioni, l’abbandono silenzioso e il lavoro strisciante. Questi processi, seppur diversi, condividono una radice comune: la mancata conciliazione vita-occupazione, il malessere psicologico e relazionale sul luogo di lavoro e l’impossibilità di coltivare i propri interessi. Ma quando viene percepito come totalizzante, il lavoro può bloccare il flusso comunicativo con il nostro mondo interiore. Quel giardino che, se non curato, fa germogliare solo disagio, stress, stanchezza cronica e insoddisfazione.
L’idolatria del lavoro e della prestazione, profondamente radicata nella società moderna, ci spinge a sacrificare altri aspetti della vita in nome del successo e dell’arrampicata sociale. Ciò può portare a una perdita di senso e di significato della nostra stessa esistenza, riducendoci a meri ingranaggi di una macchina produttiva che ci appare sempre più alienante.
D’altro canto, la svalutazione del lavoro è una reazione alla precarietà e all’insicurezza del mercato del lavoro, come ha evidenziato il filosofo Bauman in Lavoro, consumismo e nuove povertà (Città Aperta 2007). Molti, soprattutto i giovani, si trovano intrappolati in lavori precari, sottopagati e che non offrono prospettiva alcuna, smarrendo la fiducia nel lavoro come strumento di realizzazione. Oltre a ciò, l’automazione e la digitalizzazione stanno alimentando, più o meno a ragione, il timore che l’occupazione umana diventi superflua.
Tanto l’idolatria quanto la svalutazione sono posizioni pericolose poiché negano la complessità, le potenzialità e le naturali contraddizioni che animano il mondo del lavoro. L’idolatria lo assolutizza, la svalutazione lo riduce a un fastidioso pretesto per cercare altrove il proprio fiorire. Ma rinunciando alla nostra occupazione potremmo dover rinunciare, è bene ribadirlo, anche alle mete che ci ha permesso di traguardare: l’uguaglianza, la dignità, i diritti universali e, di nuovo, la libertà.
In questo momento storico, il lavoro ci pone di fronte a un’urgenza: assumerci la responsabilità di un cambiamento che non tollera più la sua mancanza o la presenza di un’occupazione opprimente, precaria e non dignitosa che, come naturale conseguenza, ci disumanizza. Per superare questo stallo, può esserci utile riconoscere il lavoro come una delle tante parti della vita, e non l’unica, da valorizzare come attività che contribuisce al benessere individuale e collettivo, permettendoci di promuovere la dignità e il rispetto reciproci.
La domanda che sovente ricorre nelle nostre conversazioni, “sono o faccio il mio lavoro?”, ci invita a riflettere sulla nostra relazione con l’occuparci. Siamo la nostra professione o la svolgiamo? La risposta non è univoca perché dipende da come il lavoro si inserisce nella nostra vita e contribuisce al nostro benessere.
Il lavoro rimane, e probabilmente lo sarà per sempre, un elemento cruciale della nostra esistenza, capace di influenzarci profondamente. Per questo, trovare un equilibrio tra l’impegno professionale e la realizzazione personale, riconoscendo il valore del lavoro senza permettergli di dominare la nostra vita, si conferma una nostra esigenza. L’ha ricordato anche Giovanna Botteri, giornalista triestina per anni inviata Rai da Pechino e Parigi, ora felicemente in pensione. Commentando le proteste francesi, scoppiate nella primavera del 2023, contro la riforma delle pensioni, aveva raccontato ai telespettatori: “Sono cinquant’anni che ci dicono: ‘Devi lavorare, devi lavorare duro, devi fare carriera’. Ci dicono che dipendiamo dal lavoro che facciamo e dai soldi che ne derivano. Ma, improvvisamente, oggi, in piazza e nelle strade si sente qualcos’altro. Si sente che c’è una vita oltre al lavoro: una vita che dobbiamo rivendicare”.
NOTE
[Photo credit Jordan Whitfield via Unsplash]