A rendere speciale il luogo in cui veniamo al mondo non sono le particolari geometrie delle strade né le forme più o meno avveniristiche dei suoi edifici. A legarci inesorabilmente a esso non sono neppure le piazze, né l’intricato labirinto di vie o i tetti colorati delle sue case. Ciò che avvertiamo davvero nostro e che riconosceremmo ovunque, sono gli odori che abbiamo sentito lì per la prima volta, quando del mondo non conoscevamo ancora nulla. E’ il verso del merlo che nidifica sull’albero dove noi eravamo soliti giocare a nascondino e che non abbiamo più sentito in modo così chiaro e inequivocabile da allora. “Casa” è il tratto di strada che percorrevamo ogni giorno per andare a scuola, lungo il quale la signora del civico 6 sbatteva il tappeto del bagno, dopo aver fatto uscire il gatto che lì sopra aveva trascorso la notte.
«Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata» afferma Calvino ne Le città invisibili (1993). «Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano». L’anima pulsante di un luogo che sentiamo nostro non sono dunque le sue forme, ma l’intreccio di relazioni che noi abbiamo intessuto o continuiamo a intessere con esso. Alla stregua di un’amante clandestina, la città si dona a noi con passione e poi si nasconde, ci chiama a lei e subito si allontana. Ciò che conserviamo è un profondo senso di benessere e di appartenenza. Ma non facciamo l’errore di considerarla un’entità ferma e di volerla trattenere, perché rimarremmo delusi.
Nel descrivere la città di Maurilia, infatti, Calvino ci mette in guardia proprio da questo pericoloso meccanismo della mente umana. Le città sono esseri viventi, sembra avvertirci lo scrittore, e assumono diverse identità lungo gli anni, ognuna delle quali risplende di luce propria, in virtù del valore che ha in quel preciso momento storico. Diventando metropoli, la città provinciale di Maurilia è sparita. Ma «la metropoli ha questa attrattiva in più – afferma Calvino – che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Se Maurilia fosse rimasta una cittadina di provincia, nessuno si sarebbe mai accorto della sua bellezza. Solo ora che si è trasformata in metropoli, chi l’ha abitata fin dall’inizio rimpiange la piazza con le galline, il chiosco della musica che c’era al posto del cavalcavia; insomma, i suoi tratti semplici, la sua genuinità.
Se amiamo davvero le nostre città, dobbiamo lasciarle andare. Ciò che conta veramente sono le emozioni incise dentro di noi, cui possiamo attingere in qualsiasi momento della nostra vita. Cercare di fermare l’incessante cambiamento, significherebbe invece negarci sentimenti importanti, quali la nostalgia o il calore del ricordo.
Ma Calvino si spinge oltre. Tra le righe egli ci fa capire che quelli che noi chiamiamo cambiamenti non sono neppure tali, ma il frutto della nostra mente ordinatrice. Siamo noi che mettiamo in relazione, che confrontiamo, che parliamo di trasformazione. Nella realtà le cose vivono di presente. I fatti e i luoghi sono costituiti da istanti affiancati, uno diverso dall’altro. Siamo sempre noi che ci ostiniamo a congiungerli con linee rette, volte a dare un senso ulteriore e personalissimo a qualcosa che lineare non è.
«Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. E’ vano chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun rapporto» (I. Calvino, Le città invisibili, 1993).
Ogni periodo storico, dunque, ha i suoi figli ed essi vivono la città in maniera sempre differente. Quello che conta davvero è il modo con cui i luoghi ci trasformano e cosa diventiamo proprio in virtù di essi.
NOTE: [Photo credits Jacek Dylag via Unsplash]