Si conclude ufficialmente a Treviso, al Museo di Santa Caterina, la celebrazione del centenario della morte di Auguste Rodin (Parigi, 12 novembre 1840 – Meudon 17 novembre 1917) con la mostra Rodin: un grande scultore al tempo di Monet, curata dal critico d’arte Marco Goldin in collaborazione con il Musée Rodin di Parigi, visitabile fino al 3 giugno 2018. Dopo le esposizioni al Grand Palais parigino e al Metropolitan Museum di New York è Treviso la sola sede italiana a mettere a disposizione 80 opere del più grande scultore del XIX secolo, 50 scultore e 30 lavori su carta.
Secondo Rainer Maria Rilke − come leggiamo nel catalogo della mostra − l’opera di Rodin «crebbe nella purezza, solitaria e immensa nella natura eterna» e la scultura è proprio l’arte che collocando figure nello spazio assegna loro il desiderio d’eternità, ricordando, nel flusso incessante del tempo, la presenza dell’uomo nel suo invariabile muoversi tra il giardino e l’infinito. Forme e sentimento si amalgamano tra le mani di Rodin «straordinariamente larghe con delle dita molto tozze» − come ricorda sulla Revue de Paris il 15 gennaio 1918 il critico d’arte Paul Gsell – perché l’arte non è che sentimento e ha inizio con la verità interiore e con la capacità di vivere, di provare emozioni, di fremere, di amare. Tuttavia senza le proporzioni e la scienza dei volumi il sentimento è paralizzato come scrivere poesia in un paese straniero ignorando la lingua: Rodin non conta infatti sulla sola ispirazione ma sull’attenzione e sulla volontà ed esorta i giovani artisti a essere onesti operai senza però scadere nella piatta esattezza del calco.
Rodin è quindi faber e magister, come nell’Eden nel tempo della Creazione: dalle mani nasce una nuova vita, il soffio dell’esistenza, con le mani si coltiva l’anima, si modella un volto. E Rodin cerca sempre sotto la superficie, non si limita alla modellatura ma entra nell’anima raccontando gioia e dolore, abbandono e strazio, la forza dei sentimenti appunto, il carattere, così nei gruppi scultorei La porta dell’Inferno e I borghesi di Calais. Per entrambi modella decine di corpi rifiutando di attaccarsi alla cronaca e all’aneddoto, alla descrizione dei gironi danteschi e all’episodio della resa della città di Calais nel 1347, e, in modo quasi bergsoniano, in una vera e propria circolarità del tempo creativo, ama fare o far realizzare dai suoi assistenti mille variazioni esaurite le quali gli sembra di tornare sempre al punto di partenza. Con Rodin «la scultura ha smesso di essere impassibile» − scrive nel 1883 Edmond Jacques – e tre anni prima, Roger Ballu, ispettore delle Belle Arti inviato a controllare il procedere dell’esecuzione della Porta dell’Inferno, nella sua relazione annota: «In questo giovane scultore c’è un’originalità e una tormentata potenza espressiva davvero sorprendenti. Sotto l’energia degli atteggiamenti, sotto la veemenza delle pose tormentate, nasconde il suo disprezzo, o piuttosto la sua indifferenza per lo stile freddamente scultoreo. Rodin è ossessionato da visioni alla Michelangelo. Potrà forse sconcertare ma non lascerà mai indifferente lo spettatore». Se per la Porta dell’Inferno Rodin modella centinaia di corpi in preda a una vera e propria febbre trasformandoli e assemblandoli ad altri per farne emergere le passioni in un magma dantesco, l’assemblage dei Borghesi di Calais è un inno alla fragilità umana e alla grandezza dell’anima mite: le figure sono dapprima modellate nude, a grandezza maggiore del naturale e in modo indipendente le une dalle altre solo successivamente rivestite, le forme sono quindi essenziali, i personaggi soffrono e le loro espressioni testimoniano senza bisogno di commenti. Nell’abituale tourbillon che faceva riammettere quanto già modellato, Rodin riutilizza ad esempio un nudo acefalo di Jean d’Aire, uno dei Borghesi di Calais, per il Balzac, principale attrazione del Salon de la Société Nationale des Beaux-Arts inaugurato il 30 aprile 1898. La committente Société des Gens de Lettres come la stampa e il pubblico ebbero però reazioni negative perché nell’opera non era possibile riconoscere il romanziere Honoré de Balzac. Intervistato da Le Figaro il 12 maggio 1898 in risposta alle critiche Rodin ribadì che la scultura moderna non deve essere una fotografia perché l’artista non deve lavorare solo con le mani ma soprattutto con il cervello. Nel Balzac infatti – per realizzare il quale, mancando la conoscenza diretta del personaggio a differenza del Monumento a Victor Hugo, Rodin dà vita a una cinquantina di schizzi e a uno Studio di nudo di Balzac studiando la fisionomia degli abitanti di Tours, ricercando foto dello scrittore e indagando le misure dei suoi abiti – i dettagli fisici e il senso del portamento sono annullati per toccare solo l’essenziale, l’impeto di creazione del romanziere, attraverso soprattutto lo sguardo cui aveva dedicato numerosi studi. Con il Balzac, eseguito in gesso − e non in bronzo come richiesto dalla committenza − per conservarne la trama e quasi l’asprezza della materia attraverso una pelle che dà il senso della vita, la scultura si coniuga con la visione: lo scrittore è come attorniato di luce e vento, stretto nella sua vestaglia da camera accoglie l’universo nei suoi occhi.
È nell’ultima sala della mostra che si trovano le sculture dove la rappresentazione psicologica diventa sempre più raffinata come nel sensuale Bacio e nel celebre Il pensiero, venate da uno sottile malinconia e entrambe connesse alla drammatica liaison con Camille Claudel, l’allieva, l’assistente, l’amante e l’amata non amata. È il volto di Camille plasmato da Rodin nel 1893, ad esempio, quello del Pensiero, assorto e compreso in uno spazio inviolabile rivestito con la cuffia con cui si sposavano le ragazze bretoni, sbozzato da un blocco di marmo non finito in un tempo sospeso, quell’assoluto della vita interiore rapito nell’istante dello sguardo.
Rossella Farnese
[Credit immagine di copertina: La tribuna di Treviso]