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L’importanza dell’elemento culturale per la comunicazione medica

Lo scopo della medicina è quello di prevenire ed eliminare il dolore (malattia) che assale ogni soggetto umano. Per tal ragione siamo soliti definire la medicina come la scienza che assume quale proprio fine il debellare le malattie, costruendo così un rapporto che si basa sulla relazione: medicina (soggetto) – cura (mezzo) – guarigione della malattia (fine)¹. Tale descrizione, seppur molto persuasiva, non riesce a restituire in maniera completa la complessità dell’agire medico, poiché come scrive il noto storico della medicina Giorgio Cosmancini: «si sente spesso affermare, da molti fra gli addetti ai lavori –ricercatori, clinici, docenti universitari–, che la medicina è una scienza […]. Così non è. La medicina non è una scienza, è una pratica basata su scienze e che opera in un mondo di valori. È, in altri termini, una tecnica – nel senso ippocratico di téchne – dotata di un suo proprio sapere, conoscitivo e valutativo, e che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo. La téchne iatriké, l’originaria ars curandi, la perenne arte della cura, è una tecnica, un’arte, un mestiere – il mestiere del medico – che ha una sua propria tradizione, una sua propria vocazione, una sua propria cultura. In seno a tale cultura, la tecnica è il mezzo, ma l’anthropos, l’uomo, è il fine ultimo, o primo»².

In altri termini, seguendo la definizione di Cosmancini, la medicina è una disciplina che, abbinando e accorpando molti saperi specialistici, assume come proprio fine l’uomo e tenta di costruire una serie di situazioni tecnico-terapeutiche che possano riportare i soggetti a superare il dolore provocato dalla crisi patologica al fine di ristabilire il loro equilibrio vitale. Avendo come fine l’uomo e dovendo intervenire costantemente su di esso, è di estrema facilità cogliere come sia assolutamente indispensabile lavorare anche sul contesto e sulle forme culturali che donano senso allo stesso modo di esperire e di dare identità all’intendersi quali uomini. Non a caso Giovanni Berlinguer, scrive: «le malattie umane non sono un fenomeno puramente biologico. Esse variano non solo tra individuo e individuo, ma secondo le epoche, le zone del mondo, le classi sociali. Esse sono probabilmente uno degli specchi più fedeli e più difficilmente ineliminabili del modo con cui l’uomo entra in rapporto con la natura, attraverso il lavoro, la tecnica e la cultura, cioè attraverso rapporti sociali determinati e acquisizioni scientifiche storicamente progredienti»³.

Tale modalità di attribuire significato alle malattie viene magistralmente riassunta dal grandissimo filosofo Michel Foucault il quale, all’interno di un articolo scritto nel 1966 dal titolo “Message ou Bruit?”⁴, sostiene che gli organi umani non producano dei messaggi oggettivi e naturali che la medicina ascolta, ma gli stessi producono dei rumori che la medicina interpreta in relazione a dei criteri culturali che le donano senso ed esistenza. Questo pensiero, che potrebbe sembrare di estrema difficoltà interpretativa, si spiega in maniera molto agevole facendo riferimento a tutte le novità scientifiche che continuamente rivoluzionano gli schemi culturali di tutti noi e della medicina stessa. Pensiamo, ad esempio, agli smartphone ai tablet ecc., che oggi costituiscono una delle fonti principali attraverso le quali ci informiamo e doniamo senso alle nostre espressioni quotidiane. Questi apparecchi oggi vengono comunemente utilizzati sia dai pazienti che dai medici in diverse modalità e con scopi differenti per monitorare o ricevere informazioni sulla salute. Generalmente controlliamo costantemente, attraverso alcune app e alcuni device collegabili allo smartphone, il battito cardiaco o il numero di passi giornaliero, ma tale situazione non è sempre esistita né si presta ad essere oggettivata una volta per tutte; anzi, deve essere costantemente interpretata da medici, i quali devono restituire a tale dato un valore che si parametra in relazione ad una serie di componenti che sono proprie del singolo soggetto e della cultura nella quale lo stesso cresce e dona forma alla propria vita. Questo banalissimo esempio mostra come il lavoro del medico, avendo come proprio fulcro il bene per l’uomo, non può sottrarsi ad una analisi costante della realtà contemporanea che porta con sé una serie di strumenti, di innovazioni o più generalmente di codici culturali che sono imprescindibili all’interno delle modalità di creazione del senso dell’esperienza umana che necessita l’ausilio della pratica medica. Ne segue che le parole del filosofo francese Georges Canguilhem assumano sempre più significato: «quale che sia l’interesse di uno studio delle malattie che tenga conto della loro varietà, della loro storia, del loro esito, tutto ciò non deve eclissare ad ogni modo l’interesse per quei tentativi di comprensione del ruolo e del senso della malattia nell’esperienza umana»⁵.

Risulta dunque chiaro che le diverse forme di comunicazione della salute, sia nella sua forma pubblicitaria che nella relazione diretta tra medico e paziente, devono in ogni caso tenere bene presente l’elemento culturale che dona senso alle singole vite dei soggetti, e che si devono plasmare ad esso, senza avere la presunzione di trovare dei sistemi linguistici universali che possano far passare gli stessi concetti a tutti in maniera univoca. Questo si avvera perché la salute è un problema oggettivo che deve essere trattato e comunicato in maniera soggettiva e che racchiude dentro di sé la pienezza dei riferimenti culturali che contribuiscono ad attribuire un significato all’esistenza di tutti noi.

Francesco Codato

NOTE:
1. Cfr. F. Codato, Il diritto di essere tristi. Per una filosofia della depressione, Alboversorio, Milano 2015, pp. 13-18;
2. G. Cosmancini, Il mestiere del medico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. XI;
3. G. Berlinguer, Storia e politica della salute, Franco Angeli, Milano 1991, p. 33;
4. Articolo contenuto in: M. Foucault, Dits et écrits V. 1, Gallimard, Paris 2001;
5. G. Canguilhem, Le malattie, in Scritti sulla medicina 1955-1989, Einaudi, Torino 2007, p. 20.

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