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L’infanzia come radicamento e riflesso dell’io: Saba e il piccolo Berto

«Berto – gli dissi – non aver paura./Io ti parlo così, sai, ma non oso, o appena, interrogarti. Non sei tu, tornato all’improvviso, il mio tesoro nascosto? Ed io non porto oggi il tuo nome?»1

A chi non è mai capitato di parlare con parole suadenti al piccolo bimbo che risiede in noi, come in questo passo di Saba? Quante volte il fanciullino, crucciato, ci ha spinto a comportarci oltre le convenienze, magari mettendo in atto atteggiamenti poco consoni?

Capita spesso che, difronte a realtà scomode, non piacevoli o semplicemente contrarie alle nostre aspettative, una parte di noi emerga prepotentemente, imponendo la sua voce e costringendoci ad agire o a reagire in maniera anticonvenzionale. Questa parte, eliminate tutte le forme sociali o culturali, spinge l’adulto a comportarsi in maniera tremendamente spontanea e sincera, talvolta mettendolo in un terribile imbarazzo, difronte al prossimo.

Se Freud pone le basi per l’analisi scientifica di tali realtà e dinamiche inconsce, già Pascoli aveva parlato di un “fanciullino” a cui tutte le cose appaiono nuove e che permane in noi anche in età adulta. Dopo di lui, anche Umberto Saba dedica una sezione intera della sua raccolta di poesie alla figura di Berto, il proprio sé bambino, a cui si sente profondamente legato. Egli chiama Berto «l’immagine di me, d’uno di me perduto»2, una parte dell’anima sepolta da anni, dunque, che ritorna alla luce scavando nelle profondità delle sue origini. Con lui parla, meglio, realizza un monologo, dato che Berto ascolta, intervenendo poco o niente, quasi fosse il riflesso di una realtà intangibile, un ricordo sbiadito che talvolta ritorna. Ma in questo dialogare Saba si riscopre, lasciando al lettore due quesiti curiosi: Quanto l’infanzia ha influenzato la sua persona adulta? Quanto di quel bambino è rimasto in lui?

Si tratta di due domande per nulla immediate, che coinvolgono una serie di altri elementi appartenenti a settori come la pedagogia, la psicologia dello sviluppo, il cognitivismo.

Ormai la maggior parte degli psicologi concorda nel ritenere che l’infanzia è un momento essenziale nella vita di una persona; un trauma subito da bambino è un trauma che l’uomo adulto si trascina per tutta l’esistenza.

Saba stesso era stato spinto dal proprio psicanalista ad indagare su se stesso bambino, perché lì dovevano essere presenti i nodi dei propri problemi, le fila di molti atteggiamenti inspiegati.

Un uomo come un bambino cresciuto, quello che ci presenta dunque l’autore, sebbene l’adulto si dimentichi completamente di essere stato giovane. «Perché, Berto, in volto t’oscuri? Parla. Io sono, rispose, un morto. Non toccarmi più»3.

Saba parla di un morto perché Berto è stato in un certo senso dimenticato, lasciato latente in una parte dell’uomo che non è possibile vedere, se non dopo un difficile e radicale lavoro su se stessi.

Ma attraverso questa autoanalisi, questa “messa a nudo” di realtà inesplorate è possibile capire molto di sè, l’autore lo mostra nell’ultima poesia della raccolta: Congedo, nella quale sostiene che il bimbo ha comunicato cose importanti all’uomo. L’infanzia, anche secondo Saba, viene dunque ad acquisire un valore portante, quasi i sentimenti provati da piccolo si riproponessero anche nell’adulto, dove in un certo senso vengono cristallizzati.

L’ultima riflessione è opportuno rivolgerla alla questione della permanenza del bimbo nell’adulto. Nonostante Saba più volte ripeta di parlare con un morto, una figura andata perduta, un soffio di vento in una realtà altra, nell’insistenza con cui cerca il dialogo con il fanciullo, egli stesso mostra di credere nella presenza di questa entità nell’uomo adulto. Vale a dire che, per quanto ci possiamo dimenticare di essere stati bambini, una parte di noi continua ad esserlo a suo modo; in alcuni questa parte è più evidente, in altri rimane coperta da uno strato di convenzioni, abitudini e obblighi tipici della vita contemporanea, senza tuttavia scomparire del tutto.

Saba concluderebbe forse con un invito: cerchiamo di rimanere nel profondo dei bambini, nella misura in cui questo significa conservare la propria spontaneità e i sentimenti genuini, non trascurando fino a dimenticare quella parte fanciullina che è in noi.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. U. Saba, Il canzoniere, Einaudi, Torino,ì 2004, p. 391.
2Ivi, p. 388.
3. U. Saba, op. cit., p. 392.

[immagine tratta da google immagini]

 

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Anna Tieppo

empatica, precisa, buffa

Sono nata a Castelfranco Veneto nel 1991, piccola cittadina murata, dove tutt’ora vivo. Dopo il liceo ho  conseguito la laurea presso l’Università degli Studi di Padova in Lettere e successivamente in Filologia Moderna nel 2016, occupandomi principalmente di tematiche relative alla letteratura contemporanea. Il mio ingresso nel mondo del lavoro è stato nel settore dell’insegnamento, […]

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