Considerata la situazione mediorientale, l’incurante gestione o ingestione dell’immigrazione, i fenomeni consueti e normalizzati di violenza e razzismo, l’importanza di ricercare e indagare le radici dell’intolleranza, quale atteggiamento sottostante ai suddetti eventi, si fa compito urgente.
Le radici dell’intolleranza sono profonde, la costellazione di conseguenze che ha un atteggiamento di tal fattura è molteplice. Spesso può essere ricondotta alla dimensione religiosa, e quindi al fanatismo, pensiamo alle guerre di religione, ad ogni razzismo militato, alle politiche imperialiste. Ma già nei nostri pensieri quotidiani possiamo riconoscere pregiudizi intrisi di intolleranza: far notare, per esempio, la donna che guida un’automobile costosa, o come mendicanti e spacciatori possano essere ai nostri occhi solo di altre nazionalità. Penso siano definibili intolleranti anche le reazioni rabbiose che si hanno quando noi, o altri, sbagliamo.
L’intolleranza in un certo senso è platonica, kantiana: tutto ciò che si allontana da un presupposto “dover essere” è imperfetto, mancante, inaccettabile, quindi non acquisibile, integrabile. L’inaccettabilità porta alla censura, che può essere operata da uno Stato, intollerante verso usi, costumi, atti, ma anche da quell’istanza psichica personale che Freud chiamò Super-io. Quest’ultima giudica i desideri del soggetto, gli atti, ne valuta le esecuzioni, la moralità; dirige, sorveglia e punisce l’Io. È un’istanza intollerante che genera suscettibilità, frustrazione e reattività.
L’intolleranza porta a dicotomizzare la realtà, distinguendo nettamente tra il bianco e il nero, l’atto puro e l’impuro, la religione giusta e quella errata, il buono e il cattivo; diviene tanto più forte quanto più diventa tutt’uno con il concetto d’identità. Come scrive Recalcati:
«Quando il soggetto, i gruppi umani o le loro istituzioni difendono con eccessiva virulenza e caparbietà la loro identità e i loro confini c’è il rischio di malattia psichica, di intossicazione identitaria, la quale dunque scaturisce non tanto da un deficit di identificazione narcisistica ma da una carenza di permeabilità» (M. Recalcati, Elogio dell’inconscio, Castelvecchi, 2024, p. 40-41).
Quando il non sapere chi si è, come persona, Stato, Chiesa diventa opprimente ed angosciante il negativo “non-sono” viene usato come scudo identitario. La definizione in negativo è pur sempre una definizione. Pensiamo a quanta forza e validità potesse avere la frase “io non sono come quel cattolico clericale” per un protestante nel XVI secolo, quando la riforma stava sviluppandosi e le differenze epistemologiche e teologiche erano dai più sconosciute. L’anti-cattolicesimo era ciò che definiva la Gran Bretagna come stato protestante. Kaplan scrive:
«In questo contesto religioso, l’intolleranza serviva primariamente alle persone per asserire la loro propria fede e affiliazione ad una chiesa. L’intolleranza era un marchio essenziale di una fede autentica, e la sua assenza poteva indurre sospetto e condanna» (B. Kaplan, Divided by faith, Belknap Harvard, 2009, p.37).
Questa visione fa sì che non ci sia più posto per l’Altro, facendolo percepire solamente come nemico, e non dà la possibilità alla persona, Stato, o Chiesa di pensarsi diversamente. L’affermazione categorica e apodittica “Io sono” o “Io non sono” porta il soggetto ad assumere rigidamente dei ruoli maschera dai quali non riesce più a slegarsi. L’identificazione totalizzante ad un determinato ruolo, posto, insieme di credenze, inaridisce la vita, le fa perdere slancio progettuale e creatività, elimina o allontana il diverso e promuove un’uniformità piatta e massificante.
Quale approccio adottare se qualcuno cerca di dicotomizzare la realtà e lascia che le proprie azioni siano intaccate da questo baco mortifero e virulento, che chiamiamo intolleranza? Amos Oz, nel suo libro Contro il fanatismo indica la sua soluzione: «Il senso dell’umorismo, l’immaginare l’altro, il riconoscere la nostra comune natura di penisola possono rappresentare una parziale difesa dal gene fanatico, che tutti abbiamo insito in noi» (A. Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, 2018, p.55)
Un’altra via potrebbe essere adottare un atteggiamento sincretico, che consiste nell’integrare, far interagire discutendo, trovare punti di contatto tra visioni diverse. Questa penso sia stata la strada condotta anche dalla filosofia scolastica medievale: non solo comprendere, chiarificare i dogmi, ma fare da intermediario tra cattolicesimo e protestantesimo. Così alcune probabili guerre religiose sono state combattute in un modo diverso, non con armi, ma con scambi dialettici: sono state sublimate in “war of books”.
Solamente analizzando la storia, chiarificando il linguaggio concettuale e adottando un atteggiamento critico nei confronti di ciò che è accaduto e che avverrà, potremo comprendere, se non il perché, almeno il come di certi eventi. Se l’odio e l’intolleranza sono radicati nell’opacità umana, rimane comunque un dovere etico lavorare su questi sentimenti.
A ciascuno il suo orto.
NOTE
[Photo credit McKenna Philips via Unsplash]
Elisa Bassignani
Sta ultimando il percorso di Studi filosofici all’Università di Parma. E’ stata membro del Club dell’Arte-fatto, fondato da Gabriele Trivelloni, con cui ha collaborato alla stesura dei libri Per un pensiero non sospeso (Grafiche Step 2020) e Per un pensiero non sostituito (Grafiche Step 2022). I suoi interessi spaziano l’intero campo umanistico, le sue ricerche sono orientate e caratterizzate da una forte interdisciplinarità.