L’essere umano ha distratto la morte. O la morte ha distratto lui. Gli ha lasciato la lusinga della sua irrealtà. Gli ha lasciato la lusinga del suo essere spazio-temporalmente distante.
Alla fine non gli ha lasciato nulla, solo un corpo fatto di tanti piccoli tasselli che faticano sempre più a ricercare il giusto incastro. Ci provano, loro, a ritrovare un equilibrio, a riallacciare i fili che li uniscono al pezzo complementare. Ma il corpo non riesce a non piegarsi su di sé. Ed i tasselli si slegano di nuovo. I lacci non resistono: si strappano.
Si rivedono gli stessi tasselli nei molti corpi affastellati gli uni sopra gli altri del dipinto di Gustav Klimt Morte e vita (1910-1911). Ad una prima occhiata l’opera appare divisa in due parti. Ad uno sguardo più attento lo sfondo predominante è quello di morte su cui si staglia un quadretto vitale. Richiama un po’ la celebre metafora del fiore nel deserto. Come da una terra arida spunta un germoglio che assumerà colori sempre più brillanti per poi ripiegarsi sul gambo fino a sfiorare, in un moto parabolico, la terra da cui ha preso vita, così Klimt traspone su tela l’eraclitea mobilità del tutto, che, lungi dall’essere un divenire casuale o disordinato, è regolata secondo ritmi precisi. La vita succede alla morte e la morte alla vita in uno scontro perenne. Il polemos assurge a simbolo e insieme a regola di tutto ciò che avviene nell’universo: questo è caratterizzato da un’armonia superiore consistente nell’unità e identità degli opposti in tensione tra loro. Il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto che permea il tutto. Esso trova espressione nell’incessante tensione e trasformazione di un contrario nell’altro.
Alla sinistra del dipinto si erge violacea e scheletrica la morte, di cui si intravede solo il cranio accompagnato da un lungo manto di croci e cerchi. Silente presenza, figura sottile quasi a volersi mimetizzare. È del colore della notte. Di quel blu che permette agli oggetti di fondersi nell’oscurità per agire indisturbati senza attirare l’attenzione di alcuno. Sulla destra vi sono molti corpi annodati e incastrati tra di loro che colmano l’intero spazio esistenziale. Esseri umani di ogni età e genere. Una madre con bambino è circondata da fanciulle e da un’anziana col viso giallastro del tempo rivolto verso il basso. Nella parte inferiore una commovente figura maschile sorregge e al contempo cerca conforto in una giovane donna. Tutte queste figure sono nude o avvolte da un manto di tasselli rossi, arancioni, blu, verdi, gialli. La parte alta, destra, del dipinto trasmette serenità: la bellezza della giovinezza si intreccia a quella della maternità. Tuttavia, lo sguardo viene disturbato dal volto prostrato dell’anziana e dall’abbraccio sofferente tra l’uomo e la donna.
L’opera pone l’accento sull’eros, sulla psiche, sulle energie di vita e di morte, in un’allegoria dove è chiara la dicotomia tra significato e significante, tra quello che appare e ciò che è interpretabile. Sono tutte composte e longilinee le figure umane presenti. Per alcune la morte non è ancora venuta e per altre essa è già passata e lascia un’assenza carica di dolore. Il sonno rappresentato rimanda al desiderio propriamente umano di voler allontanare la morte. I corpi assumono atteggiamenti difensivi, non possono farne a me. Si tratta di posizioni primordiali, quale quella fetale. I corpi sono riversi gli uni sugli altri, intrecciati e protetti come nel grembo materno. Provano una paura ancestrale nei confronti della morte, alla quale ognuno soggiace e il cui spettro ciascuno tenta di allontanare dalla mente mediante il sonno. Il sonno è, quindi, l’ultimo tentativo di avere la meglio sulla paura umana di perdere la vita. La morte così dipinta dall’austriaco è inquietante, inquietante nel suo essere all’erta. Non si è riusciti a distrarla oltre. Arriverà presto. Ed il chiacchiericcio heideggeriano scomparirà lasciando una nudità essenziale.
Jep Gambardella, nell’ultimo scorcio de La grande bellezza chiude gli occhi e coglie un pensiero di grande verità:
Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. […]
È impossibile sottrarsi alla vita e alla morte. Ognuna è perfettamente integrata nell’altra. Alla fine, dopo l’uomo miserabile viene lei, la morte. Fino a quel punto si era distratta. La bellezza della vita ed il godere di essa sono tutto ciò che abbiamo. Ciò che la morte infine si prende perché di maggiore valore. Non rimane che allontanare il velo del chiacchiericcio dalla bellezza per goderne profondamente: la morte non si lascia distrarre a lungo.
Sonia Cominassi
[In copertina, dettaglio dell’opera di G. Klimt, Vita e morte]