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Nascondimento e verità ne “La vita accanto” di Marco Tullio Giordana

Il film La vita accanto di Marco Tullio Giordana – tratto dall’omonimo romanzo di Mariapia Veladiano – nelle sale da fine agosto, parla di nascondimento e verità, ma anche di disagio, sofferenza e rinascita.
1980, Vicenza: la giovane Maria, sposata con Osvaldo, medico molto più vecchio di lei, resta incinta. Ma, al momento del parto, uno shock sembra farla crollare: la sua bimba, Rebecca, ha una macchia rossa molto estesa sul viso, un angioma. Maria rifiuta quasi del tutto la figlia, non riesce a guardarla né a toccarla, si veste a lutto e si chiude in sé stessa, passando le giornate nella sua camera, piena di rabbia. Passano sei anni: Rebecca va a scuola – nonostante l’opinione contraria di sua madre, che vorrebbe nasconderla dal mondo e dalle prese in giro. Ma l’esterno riserva alla bambina una bella sorpresa: Lucilla, la sua compagna di banco, che diverrà una presenza imprescindibile. Rebecca si avvicina anche alla zia Erminia, pianista di successo che vive con lei e i suoi genitori nell’antico e lussuoso palazzo di famiglia. Erminia insegna alla nipote ciò che sa: il pianoforte. Rebecca, infatti, ha un enorme talento musicale che la porterà a frequentare il conservatorio. Maria, nel frattempo, alterna, nei suoi confronti, meschinità e insofferenza a qualche sporadico momento d’affetto – come quando le regala un pianoforte. Ma la tragedia è dietro l’angolo: la sofferenza psichica della donna la porta a compiere un gesto tanto terribile quanto irreversibile, che lascerà Rebecca, a soli dieci anni, piena di domande e sensi di colpa. La bambina sente dire dal padre e dalla zia che Maria stava male da tempo e cercava un modo per andarsene e, inevitabilmente, si convince di essere lei, o meglio il suo marchio, la sua orribile macchia rossa, il motivo del dolore di sua madre.

Il film si muove, come già accennato, tra il tema del nascondimento e quello dell’emergere della verità. Se da piccola Rebecca nasconde la macchia con i capelli, da adolescente la esibisce di più – anche quando un ragazzo sembra interessarsi a lei. La vera Rebecca non si identifica con il suo angioma, bensì con il suo talento al piano, con il suo modo elegante e risoluto di stare al mondo, con la sua bellezza timida e con la sua tenacia. Al conservatorio è temuta e invidiata, e per questo subisce atti di bullismo. Ma la ragazza non si dà per vinta e continua il suo percorso, accompagnata dal vecchio diario di sua madre, che poco dopo la sua morte aveva ritrovato in casa. È un diario insieme doloroso e confortante: dentro, Maria scriveva di quanto amava e al contempo respingeva la sua bambina, che non sapeva toccare, né con le parole né con le carezze. Scriveva di sua cognata, che chiamava “la mostra”, e di suo marito, “il bravo medico, il bravo marito”. E, soprattutto, disegnava Rebecca, con la sua inconfondibile macchia, il rosso che si allungava tetro sulle pagine bianche, come una malattia, come l’amore, come l’odio e come il dolore.

Rebecca legge e scruta ossessivamente il diario, senza riuscire a comprendere. Finché, alla fine del film, la sua macchia diventa simbolo di nascondimento e verità insieme: per emergere come giovane donna, per trovare se stessa e la sua libertà, ma anche e soprattutto le sue radici, Rebecca deve scavare alla ricerca della verità della sua famiglia. Perché sua madre ha deciso di farla finita? Perché suo padre e sua zia non hanno mai fatto nulla per aiutarla? Rebecca è circondata da parole: quelle dure che legge nel diario della madre, quelle tranquillizzanti che escono dalle bocche del padre e della zia. Ma qual è la verità?

Umberto Eco, in un saggio del 1969, afferma: «In una società in cui le parole sono usate […] nel loro valore emotivo, gli uomini non sono liberi. Sono schiavi spesso per opera del demagogo che sa usare con astuzia i valori connotativi delle parole» (“Sotto il nome di plagio”, in U. Eco, Quale verità?, La Nave di Teseo, Milano, 2023, pp. 31-32). Le parole, emotivamente connotate, creano storie credibili, che diventano parte integrante della nostra identità. Ma se tali storie fossero manipolate, distorte, camuffate?

La parola greca per verità, aletheia, racchiude in sé l’atto di svelare e rivelare: si toglie un velo, si scoperchia qualcosa, si fa venire alla luce ciò che sta sotto e preme per emergere. Disvelare è un movimento che può causare dolore, lasciare nudi, senza difese. Quando la verità viene detta, non ci si può più nascondere.
Le macchie hanno solitamente una connotazione negativa: vanno lavate via, sono sinonimo di sporcizia, l’opposto della purezza. Ma, in fondo, la sporcizia è uno strato che nasconde, camuffa, finché non si è pronti ad accettare una certa verità – oppure la nostra identità o eredità familiare. A volte un velo che nasconde rassicura e calma, come una malattia non troppo grave alla quale ci si abitua, dietro alla quale ci si cela – come fa Maria. È molto significativo, infatti, che quando, dopo il primo giorno di scuola, Rebecca ha la febbre, sua madre la accarezzi dicendole: “È bello essere malati, eh?Rebecca, però, possiede una forza e un’indipendenza che erano sconosciute a sua madre: la forza di svelare, di vivere nella verità e in libertà, al di là delle parole, percorrendo con coraggio un sentiero solo suo.

 

NOTE
[Photo credit Carrie Borden via Unsplash]

Francesca Plesnizer

astratta, caparbia, tragicomica

Sono docente liceale di filosofia e storia, ma anche redattrice culturale e autrice. Amo moltissimo il mondo della scuola – anche se, curiosamente, da studentessa l’ho mal sopportato. Sono nata e vivo a Gorizia e ho studiato a Trieste. Scrivo di filosofia, cinema, serie tv e libri – a volte scrivo anche racconti. Amo i […]

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