La florida stagione del Romanticismo tedesco, da Goethe in poi, aveva visto formarsi un’unità tra pubblico letterato e borghesia. Alla metà dell’Ottocento l’arrivo della modernità e il tramonto dei vecchi movimenti artistici portrono alla fine di questa armonica unicità. In Germania lo stacco fu particolarmente sentito, e s’individuò come punto di rottura la fondazione dell’Impero Tedesco nel 1871, cui seguì un grande sviluppo economico ed una cultura di massa.
Il filosofo tedesco Friederich Nietzsche (1844-1900) fu autore di una delle più influenti critiche al mondo culturale a lui contemporaneo. Egli descrisse la cultura moderna come una décadence in cui l’arte si è separata dalla vita e il pubblico dallo scrittore. La modernità ha portato all’eclettismo, al predominio dei principi di utilità e di guadagno, al legame tra opera d’arte e pubblico di massa. L’arte era stata una più che degna occupazione degli spiriti elevati, ora diventava uno svago cui potevano dedicarsi solo gli uomini laboriosi con l’energia rimasta dal lavoro vero e proprio o individui pigri e oziosi senza scrupoli di coscienza per l’improduttività della loro vita. Per sopravvivere, la grande arte dovette camuffarsi da mezzo consumo e di intrattenimento: l’artista si trovò trasformato in demagogo, l’arte in strumento di seduzione delle masse. Nietzsche individuò come elementi chiave di questo nuovo corso il ruolo di spicco che ricoprivano gli attori, le cui pretese artistiche erano considerate vanesie e infantili dal filosofo tedesco, e l’enorme successo del compositore Richard Wagner (1813-1883), precedentemente ammirato dal giovane Nietzsche e poi ridimensionato a presuntuoso affabulatore di masse. Questa era la visione nietzschiana della società moderna: artisti sviliti e masse bisognose di piccola arte per evadere dal malessere della vita come un drogato in cerca di droga.
Thomas Mann (1875-1955), premio Nobel per la letteratura nel 1929, fu uno degli infiniti eredi del pensiero di Nietzsche, elaborandolo in maniera originale nella sua opera giovanile. Scrittore di estrazione borghese, Mann si vedeva come un artista che non concedeva nulla alla demagogia ma che allo stesso tempo aveva la consapevolezza di essere, come lo era stato Wagner, sedotto dal bisogno di attrarre a sé anche “la grande massa dei semplici” e non solo un ristretto pubblico colto. Mann si sentiva dunque diviso tra due mondi senza appartenere intimamente a nessuno di essi. Se nel suo monumentale romanzo I Buddenbrook (1901) la figura del borghese veniva utilizzata in un’ottica realistica e critica, nel breve (ma non meno importante) racconto Tonio Kröger (1903) il protagonista, dai forti connotati autobiografici, a partire dall’estrazione sociale, ammira una figura ideale e utopica di borghesia. Egli avrà sempre ammirazione per Hans Hansen, amico d’infanzia appassionato di libri illustrati sui cavalli e indifferente di fronte al Don Carlos di Schiller, e per la bionda Ingeborg Holm, amore di gioventù che si era accorta dell’esistenza di Tonio solo nel momento in cui il ragazzo, presente controvoglia a una lezione di danza, commise un ridicolo errore di fronte a tutta la classe. Il Kröger di Mann è nell’animo un escluso, ma egli ama coloro cui sente di non appartenere. Mann e il suo Kröger infatti non sono artisti decadenti attirati dall’eccezionale e dallo straordinario come poteva esserlo un D’Annunzio: essi amano la vita normale e le cose semplici. Il poeta Tonio Kröger è la figura di artista con scrupoli di coscienza per la propria vita improduttiva di cui parlava Nietzsche, la persona che “non ha bisogno dello spirito”, non viene additata altezzosamente come mente semplice bensì rimpianto come un “paradiso perduto”.
Tonio Kröger non è solo un racconto struggente, è anche l’istantanea di un periodo storico di cui siamo tutti figli.
Umberto Mistruzzi